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L’Ilva di Taranto: solo la punta dell’iceberg

Prove generali di un autunno caldo?


La vicenda dell’Ilva di Taranto è solo la punta di un iceberg che ha portato alla luce, in maniera definitiva e radicale, il grande problema che il mondo del lavoro si porta dietro da qualche decennio: la totale assenza di un punto di vista di parte che metta la produzione al servizio dei bisogni delle popolazioni. Se si entra nel merito della vicenda Ilva, si può capire come gli intrecci tra politica, industriali e sindacati ufficiali sia l’espressione di un orizzonte di valori e di un progetto sociale che è mortale per gli abitanti di Taranto come per tutto il resto del paese. Il fatto che debba essere la magistratura a scoperchiare i malaffari e porre sigilli, andando di fatto a commissariare la politica, è il risultato di una logica che scambia lavoro e salute, qualunque sia il costo sociale che questo rappresenta. Così è avvenuto per alcuni casi più recenti dove a pagare caro il prezzo del rapporto capitale-lavoro sono stati ancora i lavoratori e i territori che “ospitano” grandi siti produttivi: Casal Monferrato con l’Eternit, la Thyssenkrupp con la sua negligenza sulla sicurezza sul lavoro, ma anche la stessa Val Susa dove si accusa un intero territorio di voler bloccare posti di lavoro e sviluppo mentre dall’altra parte, pur consapevoli delle quantità d’amianto che si sprigionerebbe nell’aria, si mette in pericolo la salute di un intera valle; questi esempi solo per citare i casi più grossi, ma non dimentichiamo i numerosi siti produttivi medio-piccoli dove sicurezza e rispetto per l’ambiente sono messi da parte a discapito del profitto.

E’ la storia che ci ha insegnato e fatto toccare con mano come i padroni, sulla sicurezza, hanno sempre cercato di fare profitto e tutt’ora, se riescono, continuano su questa strada. E’ vero per la Monsanto, per l’Eni, come per l’Ilva. Però se facciamo un passo indietro e torniamo nei momenti più caldi delle lotte nei posti di lavoro, partendo dagli albori del movimento operaio, attraversando gli anni sessanta e tutto il decennio dei settanta del secolo scorso, la lotta per la sicurezza è stata una delle più importanti sulle quali si ponevano spesso le basi per lotte inerenti interessi di carattere politico generale. Lotte che hanno avuto la capacità di fermare stabilimenti, di creare auto-organizzazione autonoma e mettere in ginocchio i padroni arrivando a ottenere vittorie e diritti, in un orizzonte di trasformazione del sistema produttivo che abbatteva ogni conflitto tra lavoratori e “resto della popolazione”.

Di fronte a tutto ciò c’è stata una consapevole riorganizzazione della controparte assieme ai sindacati, alla quale c’è stata una capacità di reazione limitata ed insufficiente, con l’introduzione delle RSU e degli RLS, che nonostante abbiano un ruolo il più delle volte fondamentale all’interno dei posti lavoro, furono istituiti per poter controllare meglio e dall’interno i luoghi di lavoro, di fatto assopendo quelli che potevano e potrebbero essere nuovi focolai di lotta. Si trattava di spezzare la continuità tra una visione di prospettiva politica antagonista al sistema, per sostituirla con la logica della “coesistenza pacifica”, della “concertazione” tra gli interessi dei padroni e quelli dei lavoratori. Perché è figlia di questa cultura la possibilità di intravedere un interesse divergente e contrapposto tra operai ed altri settori subalterni: nella misura in cui il punto di vista operaio cessa di essere autonomo, ma diventa “organico” a quello dei padroni, anche il punto di vista che ne consegue diventa contrapposto al proprio stesso interesse in quanto sfruttati, gassati, malati o peggio morti per il lavoro.

Il punto di vista che il sindacalismo confederale propone per i propri iscritti è paradossale: per difendere il tuo diritto al lavoro, devi accettare di ammalarti tu, i tuoi colleghi, la tua famiglia, i tuoi figli, non importa il prezzo. Andare a lavorare all’Ilva è come giocare alla roulette russa: se ti va bene il prossimo colpo non sarà per te, ma per il tuo vicino!

Il fatto che la popolazione ed una fetta importante dei lavoratori dell’Ilva si siano ribellati alla logica dei sindacati confederali e li abbiano cacciati dalla città, è un sintomo di buon senso e non stupisce che esista un comitato che inserisce le parole “…cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, pur essendo difficile coniugare la parola lavoratore con la parola libertà in questo millennio.

Nel quadro generale del paese, l’attacco finale portato avanti da Marchionne chiude di fatto il ciclo trentennale iniziato con la marcia dei 40.000, per aprire una nuova fase nel mondo del lavoro. Possiamo certamente dire che all’interno dei posti di lavoro, grazie al nuovo quadro normativo, non è possibile riorganizzare lotte che possano andare seriamente a contrastare gli interessi padronali che rappresentano ormai l’unico riferimento. Ne sono dimostrazione quei piccoli focolai di resistenza, con caratteristiche sempre più autonome, che i lavoratori mettono in atto all’interno delle aziende: come in Fiat (scaricati anch’essi dal sindacato a cui fanno riferimento, la Cgil-Fiom, e la Ferrari ne è un caso evidente, sotto gli occhi di tutti coloro che mostrano un minimo di interesse) oppure quelle piccole lotte autonome di lavoratori all’interno di altri stabilimenti, grazie anche al lavorio spesso coraggiosissimo seppur poco concludente, della frammentata area del sindacalismo di base.

La ricomposizione che tentano di proporre i padroni con la mediazione confederale, ha come risultato quello di ottenere garanzie temporanee con cassa integrazione o mobilità e di non ampliare la visione dello scontro, facendolo scemare ogni volta nella soluzione del problema per gruppi di lavoratori o per lo stabilimento in causa. Non è stato un caso che dopo i momenti più caldi e a mente fredda, il presidente dell’Ilva abbia dichiarato, ponendo sempre il tutto sotto forma di ricatto, che se si chiude Taranto si chiudono gli altri stabilimenti italiani. A questa minaccia ci si è subito mobilitati, da parte governativa per trovare i soldi per le bonifiche ambientali dello stabilimento, sapendo molto bene che fine faranno i soldi e che le condizioni ambientali della città di Taranto non cambieranno in concreto, come non sono cambiate in questi anni in cui i dirigenti dell’Ilva non hanno mai applicato le prescrizioni cui erano “obbligati” dalla legge ad attenersi. Anche questo risultato è l’effetto della lotta di classe, intesa come lotta che la classe padronale italiana ed internazionale, pur nella sua frammentazione, ha in campo da tempo anche nel nostro paese: è la lotta per la riconquista dei soldi pubblici, che passando attraverso la distruzione dei servizi di carattere sociale, dalla scuola alla sanità, passando per le pensioni, ecc., con fondi che vengono costantemente tagliati al fine di poter essere riconsegnati direttamente nelle mani dei privati, siano essi grandi imprenditori o grandi banche, grandi gruppi criminali anche dal punto di vista borghese o grandi cooperative ormai ad indirizzo speculativo.

In tutto questo svolge un ruolo fondamentale il monopolio della informazione. Cominciamo dalla contestatissima triade sindacale confederale Camusso, Bonanni e Angeletti che dimostrano di uscire allo scoperto quando c’è un palco nazionale in cui farsi vedere, perché al fianco dei lavoratori e della popolazione di Taranto potevano spendersi quando i tempi erano favorevoli a quella trasformazione e bonifica degli impianti che ora sembrano vedere come necessaria solo dietro al pungolo della magistratura. D’altro canto le contestazioni dal basso vengono colpite con delle denunce, perché sono l’unico mezzo, non avendo reali risposte alternative, per contrastare chi ha deciso di opporsi e gridare a voce alta come stanno le cose in maniera reale. E’ interessante notare come Angeletti utilizzi le categorie con cui si muove la triplice, quella dell’apparire sui mass-media, contro gli stessi contestatori: di tutto quanto detto, visto e sentito da quella piazza, l’unica cosa che ha capito Angeletti e gli altri rappresentanti del sindacalismo ufficiale è stato solo il problema del poter apparire in TV. Dell’urlo di dolore e di rabbia che è venuto da quella piazza, nulla è stato recepito, tutto è stato rifiutato. Non saranno certo contro la magistratura nel processo che vedrà lavoratori e cittadini comuni di Taranto alla sbarra. E nessuna voce scandalizzata sui grandi strumenti di comunicazione di massa si leverà in difesa di quelle donne e di quegli uomini che contestavano spaccando in due la piazza sindacale, chiedendo parola.

Tuttavia qualche comunicato di qualche gruppo presente in quella piazza è suonato leggermente stonato, là dove sembra che si cerchi di differenziarsi e di prendere le distanze, in una difesa che ha un’ottica un poco perbenista, dai No Tav, dai Centri Sociali e dai Black Bloc, tutti bollini che hanno una connotazione negativa, con gradi differenti, più che altro dal punto di vista del potere dominante.

Torniamo all’Ilva. La vicenda di questa azienda non è cosi distante dalla vicenda Fiat né da tante altre, perché a Taranto si è scoperchiato un sistema di connivenza tra capitale e sindacato che nessuno può fingere di non vedere. Se prendiamo il caso Fiat, possiamo vedere come la stessa Cgil sia immersa nel silenzio più totale rispetto alla querelle Marchionne-Fiom e come la maggioranza del corpo professionale di quel sindacato, si stia allineando alla linea della segreteria Camusso, lasciando di fatto sole le piccole sacche di resistenza all’interno degli stabilimenti dell’ex colosso dell’automobile italiana. Questo fa capire come mai a Taranto per decenni i confederali hanno sempre chiuso molti occhi rispetto a quello che accadeva all’interno dello stabilimento.
E’ partendo da questa osservazione che si comprende come il sindacalismo ufficiale, cessata ogni parvenza di visione anticapitalista dal momento della fine della guerra fredda, abbia cominciato a preoccuparsi solo della salvaguardia del proprio apparato, decidendo di strambare, per usare un termine nautico che richiama il mare di Taranto, inserendosi nei tavoli di potere attraverso gli istituti della concertazione, passando dalla riforma del Tfr che ha inaugurato la costituzione di fondi cogestiti con Confindustria, le modifiche dei contratti nazionali che hanno promosso la precarizzazione dei rapporti sociali, arrivando alla totale assenza nel contrasto anche dell’ultima riforma del mondo del lavoro accettata come un bene o come “minor male” per i lavoratori, ma di fatto partecipando ai profitti del mondo del lavoro e avvicinandosi sempre più a un sistema sindacale non più di lotta ma di assistenzialismo.

Di una cosa bisogna dare atto ai vertici del sindacalismo ufficiale: loro partono dal presupposto, vero, che non ci sono più margini per il riformismo e per la contrattazione intesa in senso classico. Sanno che in questo capitalismo decadente, non c’è più nulla da rivendicare, perché un sistema produttivo “fluido”, in grado di ritrarsi e ricollocarsi di fronte ad ogni problema che si sollevi in ogni territorio, nulla si può chiedere. Ad ogni richiesta non si aprono più tavoli di trattativa, ma solo fuga e scomparsa della controparte. Dal loro punto di vista, quindi, cercano sempre delle scappatoie per sopravvivere ad un mondo ostile: la loro è una visione parassitaria rispetto al capitale ed al lavoro. Sanno di poter esistere solo all’interno di quel conflitto e pur di mantenere qualche parvenza di realtà nella quale poter avere un ruolo, forse aprirebbero dei centri di distribuzione di bombole di ossigeno per i bambini di Taranto, piuttosto che contrastare davvero gli interessi padronali. In fondo un costruttore di bombole è uno che fa lavorare gente, un “creatore di posti di lavoro”, prendendo a prestito un concetto caro alla Camusso.

 

Il sindacalismo di base, ripetiamo ammirevole per l’abnegazione di tante e tanti militanti, è rimasto legato ad un immaginario rivendicativo d’altri tempi, rimpiangendo un contesto che non esiste più: solo per questo non è riuscito a sfondare, con il dispiacere anche di illustri dissidenti della Fiom che avrebbero tratto linfa vitale nella battaglia interna se quel contesto fosse diventato più forte. L’idea che si intende agitare, è che siamo all’interno di una fase storica nella quale saremo costretti a costruire un modello di produzione che non preveda il passaggio della statalizzazione dei mezzi di produzione, ma che si debba trovare una strada nuova senza partire dal via: il che presuppone una strutturazione teorica pressoché tutta da inventare. D’altronde l’Ilva costituisce il naufragio anche per le teorie legalitarie sia di stile dipietrista che grillino: con la legalità ed il giustizialismo non si cambia il destino di una città o di una nazione. Al massimo si blocca l’assassinio dispiegato e di massa della popolazione: questo sta tentando la giudice con una ostinata difesa di una costituzione formale che sul piano materiale è ogni giorno destrutturata di ogni possibile applicazione concreta. Lo dimostrano le prese di posizione di tutta la politica ufficiale: tutti vedono in Riva un possibile difensore della patria, una patria che da questo punto di vista, ha le stesse prospettive di una camera a gas, anche in senso letteralmente inteso.

Quali prospettive per quello che la signora ministro del lavoro prospetta come un autunno caldo?

Bé le prospettive sono molto basse se le condizioni rimangono queste e se la base dei lavoratori non prenderà una reale coscienza di quello che sta avvenendo. Tuttavia una variante interessante sembra fare capolino anche in quel di Taranto: questo “Comitato di cittadini e lavoratori liberi e pensanti” sembra capire l’importanza delle lotte che sono riuscite a riunire la popolazione in Val di Susa che da un certo momento in poi si sono rese conto che la loro lotta aveva senso solo se la si inscriveva in un contesto allargato, solo se si partiva da un processo che prevede un orizzonte produttivo che metta in discussione tutte le ipotesi che stanno alla base del sistema attuale. Solo all’interno di un’ottica che contenga gli interessi delle classi subalterne è possibile contraccare.

Se non è un’intuizione troppo tardiva, ma saprà coniugare la lotta all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro, se avrà la capacità di analizzare le lotte sociali nella loro molteplicità e unirsi a quelle lotte, con il movimento degli studenti e quelle per i beni comuni e i comitati, che sono gli unici allo stato attuale capaci di alzare il livello dello scontro, allora una speranza di trasformazione radicale potrebbe davvero cominciare a prendere forma. Solo così si potrà sperare in un vero autunno caldo, cominciando a riflettere e lottare per un futuro che abbia ancora e di nuovo un senso per essere vissuto.

 

Redazione Infoaut

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