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L’ingranaggio che può creare l’eccezione

Tre anni e sei mesi per aver ucciso un ragazzo. Si è concluso così, in Cassazione, il processo ai quattro poliziotti che la notte del 25 settembre 2005 a Ferrara riempirono di botte Federico Aldrovandi, Aldro, fino a portarlo alla morte. Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri non finiranno in carcere, le condanne sono troppo lievi, la loro pena è già passata sotto le forbici dell’indulto. Ora il peggio che potrà capitare loro è il licenziamento. In tutti questi anni, al contrario, i quattro agenti hanno continuato a lavorare ed essere pagati, perché le istituzioni mostrano tutto il loro garantismo quando si parla di divise e in questi sette anni l’unico provvedimento preso è stato un trasferimento a Rovigo… provate a fare un concorso pubblico con una condanna per manifestazione non autorizzata ferma al primo grado…

Tre anni e sei mesi. “Una piccolissima giustizia” ha scritto sul blog il padre di Federico.
In questi giorni c’è chi rischia dieci anni per avere, al massimo, rotto una vetrina. Hanno ucciso un ragazzo, hanno cercato di descriverlo come un drogato, un violento, hanno negato per tutti questi anni di avere le mani sporche di sangue, hanno querelato la mamma di Aldro perché sul suo blog cercava giustizia.
Proprio Patrizia in questi anni, dai primi post fino alla sentenza in Cassazione, è stata il primo tassello che ha permesso di arrivare comunque ad una condanna. Nonostante il fango, nonostante gli insabbiamenti, lo Stato è stato costretto a processare se stesso, dandosi una pena lieve, ma definitiva, nell’ultimo grado di giudizio possibile.

La condanna del caso Aldrovandi è il frutto di una lotta a molte voci che in questi anni hanno mantenuto l’attenzione viva: il blog di Patrizia, gli amici di Aldro, i gruppi ultrà, i centri sociali, tanti solidali, “una famiglia acquisita” la definisce sul blog il padre Lino. Rompere il silenzio è stata la vittoria di questo movimento, è stata la stessa Patrizia a sottolinearlo in un dibattito al Lab. Crash di Bologna nel 2009 sopo la prima condanna. “I centri sociali fanno paura perché sono posti dove la gente impara a pensare” aveva detto la mamma di Aldro in quell’occasione, posti in cui la memoria collettiva muove i suoi ingranaggi e scrive la sua storia con lettere così pesanti da mettere in imbarazzo lo Stato costretto, in questo caso, a condannare i suoi protetti. Improvvisamente li chiama “schegge impazzite“, termine usato ieri dal procuratore generale durante l’arringa conclusiva dell’accusa.

Quante “schegge impazzite” non hanno subito la condanna ufficiale? Quante continuano a girare per le strade armate? “UN colpo accidentale” è stato quello sparato nel 2006 da un vigile antiwriters a Como contro la testa del 17enne Rumesh Rajgama, il proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani nella piazza di Genova nel 2001 è stato deviato da un sasso. Mentre si cerca di fare retorica sugli anni ’70, chiedendo strette di mano riconciliatorie su palchi applaudenti, gli assassini di Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Giannino Zibecchi e moltissimi altri, non sono mai stati condannati, non hanno subito pene e la memoria dei nostri compagni ufficialmente rimane impronunciabile, affidata solo alla nostra narrazione di parte. Una narrazione che non deve abbassare la guardia. Non ci saranno altri casi Aldrovandi se la memoria non saprà tenere attivo il suo ingranaggio collettivo. La stessa verità per Aldro rimarrà monca se dovessimo dimenticare che oltre i quattro assassini c’è chi li ha coperti, cancellato prove, intimidito testimoni. Il processo Aldrovandi bis è in corso, avrà la stessa fine? La sentenza della Cassazione di ieri è stata un’eccezione, la regola è che lo Stato non processa se stesso. Non possiamo delegargli la nostra memoria.

@Ortic4

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