Parigi: un passo avanti nel caos sistemico
[Français] – [English] Ancora una volta sono le parole giuste che ci mancano, nel momento in cui eventi di questo tipo rompono con le nostre griglie analitiche consolidate senza aprire su niente di potenzialmente positivo per i tempi che abbiamo di fronte. In queste ore, la letteratura è forse più capace di dire qualcosa di interessante sul sovvertimento dei punti di riferimento (non è un caso che sia uno scrittore, da noi, a cogliere alcuni punti di fondo per interpretare quanto sta succedendo).
La lucidità non aumenta certo col distacco cinico e quindi proviamo intanto a ripartire dall’impatto. Sulle considerazione geopolitiche rispetto a questo atto di guerra ci riverremo in seguito.
La prima sensazione che si prova è quella di un profondo annichilimento; veniamo spiazzati da eventi terribilmente scontati, a loro modo attesi: chi, negli ultimi 15 anni, non ha pensato almeno una volta che questo sarebbe stato uno degli approdi possibili della guerra asimmetrica? Cosa c’è di più facile e a suo modo efficace dello sparare nel mucchio, se l’effetto ricercato è la produzione di un terrore indistinto, senza volto e che fa sentire il singolo impotente e vulnerabile?
Più che di Isis, questo attentato ci parla della forma di vita del Capitale come unica comunità-umana realmente esistente, dei suoi tic e nevrosi, delle sue miserie, di noi come individui metropolitani, consumatori, espropriati di vita e di senso. I giovani pronti a immolarsi per il Califfato sono lo specchio rovesciato di un nichilismo ormai strutturante il quotidiano, dell’asfissia degli affetti, degli immaginari (mancati), di una vita ridotta a sopravvivenza; nella cesura netta con la storia politica del passato recente e del proprio essere situati come esseri sociali e storici.
E allora ripartiamo da qui. Dalla necessità di un sentire comune della guerra in corso. Capire che i morti di Parigi sono poco più che quelli causati dalle bombe dello Stato islamico ad Ankara un mese e mezzo fa non significa annegare nel benaltrismo il dolore del veder morire dei nostri coetanei ad un concerto a cui avremmo tranquillamente potuto partecipare. Significa cominciare a rompere con la forma forma di vita pubblica profondamente cinica e irresponsabile dell’Occidente. Mentre una parte consistente del mondo sprofonda nel caos politico e militare, alle nostre latitudini si pretende di vivere “come se” niente stia succedendo, come se non fossimo già dentro una guerra che i nostri governi hanno dichiarato contro i 4/5 del globo (e, senza dirlo, anche contro di noi). In quale paese in guerra quando si sentono degli spari per strada il primo riflesso è di pensare si tratti di fuochi d’artificio?
Rompere con questa forma di vita, ossia rompere con la tragedia che è l’Occidente – con la tragedia che noi siamo come direbbe qualcuno – non significa fare appelli alla tristezza colpevolizzante del privilegiato o alla contrizione anestetizzante del #prayforparis. Chiunque le zone di guerra le ha viste non solo nello schermo delle televisioni mainstream sa quanto i popoli che soffrono sfuggano al cliché della pietosa passività celebrando la vita buona ad ogni occasione possibile.
Significa capire che alle nostre latitudini paghiamo una verginità politico-psicologica-culturale non solo insopportabile ma decisamente inadeguata a cogliere le poste in gioco del presente e dell’immediato futuro.
Che cosa vuol dire essere per la pace oggi? Ecco una domanda di una certa attualità a cui sarebbe profondamente sbagliato pensare di rispondere con una nuova separatezza, con un revival del “Not in my name” dell’inizio degli anni 2000. Diversi i tempi, diversa la fase storica, diverso il modo di fare la guerra (e su questo ultimo punto di certo ci torneremo).
Sentire comune della guerra in corso anche come premessa necessaria per capire le linee di fronte. Per capire dove sono i nostri. I giovani curdi, spesso musulmani, che combattono l’isis da due anni mentre Putin ancora si faceva i propri calcoli diplomatici sull’opportunità di un intervento russo. Per capire dove sono i loro. Negli americani che hanno giocato a finanziare il fondamentalismo sunnita per il regime change post-Assad, nella NATO di Erdogan che passa le armi allo Stato islamico sperando di risolvere così la questione curda. Ma anche in chi vorrebbe applicare il metodo ISIS in Italia: se tutti gli europei, per questi “bastardi islamici”, sono colpevoli, allora per noi anche tutti i musulmani dovrebbero esserlo.
Insomma, dovremmo/vorremmo poter aver la forza di dire che i macellai-assassini che hanno sparato nel mucchio a Parigi non sono peggio di Hollande, Sarkozy, Obama, Cameron, Renzi… o di quei maiali gozzoviglianti dei principi sauditi cui i nostri governanti si piegano ripetutamente in salamelecchi mentre questi investono una parte consistente dei propri petrol-dollari nel finanziamento di una riproduzione sociale del mondo musulmano fatta a suon di oscurantismo tramite madrase, scuole coraniche e nella formazione di ripetute ondate generazionali trans-nazionali di mujahidin (un buon modo – per loro – di impiegare una gioventù potenzialmente disoccupata e conflittuale), capaci oggi di pescare anche nell’Europa delle seconde/terze generazioni post-coloniali (e anche in quote minori ma spregiudicatamente pronte all’uso di neo-convertiti bianchi).
Dobbiamo cominciare a pensare i nostri tempi. Viviamo in un’unica città globale di cui le metropoli dei diversi continenti non sono che i diversi quartieri. Beirut, Parigi, Nairobi, Tunisi, Ankara non sono che sobborghi della stessa grande città; e non perché le distanze geografiche siano annullate dai voli low-cost o dal web, ma perché si tratta di poli produttivi interconnessi, di gangli dello stesso processo di accumulazione e distribuzione delle merci. Il prezzo delle sigarette o della benzina per una gita fuori porta, in Europa, sono anche frutto dei proiettili sparati in medio-oriente o dello strangolamento sociale di milioni di lavoratori cinesi. Chi bombarda i curdi che combattono in Rojava vince le elezioni grazie ai finanziamenti europei estratti dalle casse di una Commissione che tassa, attraverso i bilanci degli stati, il corrispettivo già purgato di plusvalore del nostro quotidiano lavoro.
Come se ci fosse stato ancora bisogno di sangue per dimostrarlo, l’età dell’innocenza costruita con l’Unione Europea dopo la Seconda Guerra Mondiale, per l’Europa, è finita. Non è la Grecia ad essere dietro angolo, è la Siria; e con essa il mondo intero. Un mondo in cui soffrire per i morti può essere comprensibile, ma in cui, soprattutto, è necessario organizzarsi. Affinché non siano soltanto i boia di turno a farlo, o gli avventurieri (sovente loro padrini e sponsor) di un neo-colonialismo che vuol farci pagare il prezzo delle sue guerre.
Infoaut, 14 novembre 2015
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