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“Reddito minimo di inserimento” (alla miseria)

Il governo di larghe intese non manca mai di stupirci: proprio mentre l’Ocse puntellava le politiche italiane per i salari bassi e la sproporzione tra eccessivi contributi pensionistici a fronte di uno scarso sostegno al reddito per le fasce più povere della popolazione (riproducendo, nota bene, un principio di competizione inter-generazionale) il vice-ministro piddino all’Economia Stefano Fassina annunciava in Senato il grande contributo governativo per i meno abbienti.

Non illudetevi! Non si tratta né del “reddito di base incondizionato” richiesto dai movimenti negli ultimi 15 anni, né del “reddito minimo garantito” variamente articolato nelle 3 proposte di legge presentate alla Camera rispettivamente da Sel, Pd e Movimento 5 Stelle. Se già le proposte di Pd e 5 Stelle non uscivano da una logica di ‘workfare‘, per cui l’erogazione del contributo era condizionata dalla soggettiva disponibilità all’accettazione del lavoro (qualunque lavoro!), qui si riproducono i più biechi dispositivi di controllo sulla (contro la) povertà: si legge infatti, tra le righe, che per ottenre l’erogazione tanto agognata i poveri dovranno dimostrare allo Stato di essere buoni padri di famiglia (chi giudicherà aderenza o devianza al “modello”?) e soprattutto di cercare lavoro mantenendosi continuamente aggiornati alle liste di collocamento (come se nelle liste di collocamento si trovasse lavoro oggi!). Un vero e proprio “workfare disciplinare” che ricorda forme di controllo della forza-lavoro tipiche degli stati totalitari.

Tutto questo per una miseria: 120 milioni di euro che dovranno essere spartiti tra 3 milioni di persone (alle condizioni suddette). E per avere questa miseria, bisogna già esser oltremodo malmessi economicamente e saperlo dimostrare: le famiglie  che potranno fare ricorso al contributo (che non è individuale ma famigliare, riproducendo anzi la dimensione italica di un welfare familista) devono avere un reddito annuo famigliare uguale o inferiore ai 12.000 euro…

Che dire? Un vero e proprio contributo al mantenimento della miseria… Avessero almeno il coraggio di definirlo per quel che è! Preferiscono invece parlare, più pudicamente, di “contributo di solidarietà” (sempre la solita pelosa retorica pauperista) per il Sostegno all’inserimento sociale (Sia). Potranno di più pratiche di riappropriazione e forme massificate di insolvenza e illegalità che tanta obbedienza per pochi euro sotto condizione…

Ancora una volta, meglio la lotta!

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