Renzi e Landini: alleati contro la crisi
Tra i primi a salire sul carro del “vincitore” (trattandosi del segretario del Pd le virgolette sono esplicitamente ironiche) si è distinto Maurizio Landini. Ma come, si stupirà qualche ingenuo, non è il leader della mitica Fiom, la tenace opposizione di sinistra alla linea di estrema compatibilità della Cgil, la figura che ha aperto il sindacato dei metalmeccanici ai movimenti? Per chi avesse qualche dubbio o pensasse a un malinteso, ci ha pensato lo stesso Landini a chiarire possibili equivoci: in un’intervista al Partito di Repubblica (tutto torna, quindi), dice sì al contratto unico proposto da Renzi, accettando così un allungamento del periodo di prova con la corrispondente assenza di garanzie. Perfino l’articolo 18, feticcio della resistenza fiommina, può essere sacrificato in nome dell’alleanza con il sindaco di Firenze. Fa capolino, a mo’ di foglia di fico, la parola “reddito minimo”: qualcuno sostenne che si trattava di una grande apertura di Landini, frutto dei cartelli costruiti con le rappresentanze dei movimenti; la verità è che, oggi come allora, si tratta di sussidio di povertà, finalizzato alla – peraltro irrealistica – restaurazione della “normalità” del lavoro dipendente e a tempo indeterminato. Sotto la parola “reddito”, si nasconde ancora una volta la mitologia delle mani callose e la schiavitù del lavoro salariato. Insieme allo statuto dei lavoratori, poi, Landini dimentica anche il pudore quando afferma che tutto ciò è fatto in nome del cambiamento e della lotta alla precarietà: avanti tutta, sindaco e sindacato uniti per l’alternativa!
Si tratta di semplice opportunismo? Probabilmente no, o comunque non è questo che più ci interessa. Non avendo mai riposto alcuna speranze in Landini e nella Fiom, non ci sentiamo affatto traditi. Questa patetica giravolta fotografa invece bene la parabola del sindacato, il cui unico obiettivo è ormai la preservazione e riproduzione della propria struttura. Così, in cambio di una legge sulla rappresentanza si può tranquillamente rinunciare ai diritti dei rappresentati. Per perseguire questo obiettivo, comune a maggioranza e minoranza della Cgil, Camusso ha tentato di trasformare il sindacato in un’agenzia della governance capitalistica, mentre Landini si era inizialmente opposto in nome della conservazione della forma tradizionale della Fiom. Sbaragliati su tutta la linea, affondata la nave del rudere Rodotà prima ancora di salpare per la “via modesta”, non restano che due strade: i magistrati e Renzi. Mentre Camusso e i settori della Cgil legati alla sua maggioranza, anch’essi sconfitti, si devono accontentare della soddisfazione di attaccare “da sinistra” la Fiom: “Landini come un golfino doubleface”, twitta il portavoce della segretaria. In ogni caso, nel definitivo esaurimento della rappresentanza, il sindacato non è più uno strumento al servizio dei lavoratori, ma sono i lavoratori uno strumento al servizio del sindacato.
Su che cosa era basata la strategia di Landini? Sullo scambio con la politica istituzionale tra riconoscimento del suo ruolo e gestione della conflittualità sociale. Contro il modello Marchionne, il leader della Fiom si è più volte affannato a far presente ai padroni che esautorare il sindacato metalmeccanico significava estromettere l’unico soggetto in grado di frenare quella parte di operai, soprattutto giovani, che rischiavano altrimenti di essere fuori controllo. Quanto alla conflittualità fuori dalle fabbriche, attraverso le alleanze con alcuni ceti di movimento, dal 14 dicembre 2010 al 15 ottobre dell’anno successivo in un modo o nell’altro i tappi della rappresentanza delle piazze sono stati fatti bruscamente saltare.
C’era per la Fiom una possibilità diversa? Probabilmente sì, certamente si chiamava coraggio. Il coraggio di mettere il sindacato e le sue strutture al servizio dell’autonomia delle lotte sociali, dai movimenti studenteschi e territoriali fino alle insorgenze spurie e contraddittorie dentro la crisi. Del “movimento del 9 dicembre” si può pensare quello che si vuole, ma non c’è dubbio che se un ruolo il sindacato ha avuto è stato quello di fomentare una guerra tra poveri, cioè tra i lavoratori dipendenti e quei settori che – per quanto formalmente appartenenti a quello che una volta si chiamava ceto medio – non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Non capirlo è segno di profonda stupidità, rifiutarsi di capirlo per preservare la propria struttura vuol dire stare dall’altra parte. Non è un caso, almeno simbolicamente, che il primo incontro ufficiale tra Ladini e Renzi sia avvenuto nei giorni in cui tutti – dal Pd al sindacato, fino a buona parte dei movimenti – si affrettavano a bollare questi settori come apertamente fascisti e reazionari.
Se c’è una cosa di cui oggi abbiamo invece bisogno sono camere del lavoro metropolitane e autonome di poveri e impoveriti, di lavoratori e precari, non certo di alleanze tra ceti politici (istituzionali e di movimento, di partito e sindacali). E quelli che si erano alleati con Landini, che faranno ora? Vale il vecchio detto: chi di alleanza ferisce, di alleanza perisce.
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