Se il nostro tempo è adesso
“Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”, questo lo slogan che ha attraversato le piazze del 9 aprile, portando in piazza migliaia di persone in oltre 50 città del nostro paese. Un appuntamento che non si può dire non riuscito, in un’operazione targata Cgil che ha visto il maggiore sindacato italiano fornire mezzi e strutture anche a pezzi della compagine ‘precaria’, seppur – all’inizio? – di un’imprecisa forma di rapporto che negli anni ha evidenziato tutte le sue complessità e limiti, tumulti e corporativismi. Un’iniziativa che, per una volta, ha avuto la capacità di superare gli steccati del sindacale, sviando dimensioni autoreferenziali e non comprensibili. La buona pubblicistica nel ‘creare evento’, piuttosto in voga negli ultimi tempi soprattutto tra chi pensa di poter risolvere il suo lavoro confezionando ottime rappresentazioni e sacrificando la sostanza, ha contribuito al risultato: lo testimoniano la composizione sociale dei cortei ed il respiro eterogeneo che hanno assunto politicamente; un’apertura del genere – certo, interessata – della Cgil latitava da tempo.
‘Contro la precarietà, per il futuro’ riportava l’appello del comitato promotore, sottoscritto da decine di sigle, al quale hanno aderito in migliaia. Tappa significativa quella di ieri pomeriggio, da considerare, nelle differenze e peculiarità, dopo lo start d’indignazione del tredici febbraio, anche dopo le piazze dell’otto marzo (donne) e del due aprile (guerra), proiettati verso lo sciopero generale del prossimo sei maggio. Il leit motiv sulla precarietà dei giovani, sul futuro negato, ha costituito il volano della giornata, per quanto le piazze di ieri siano state espressione non solamente – ma anche non abbastanza – giovanile (ovviamente nella diversità da città a città), con partecipazioni di ‘studenti precari stagisti disoccupati e lavoratori autonomi’ ma anche di una buona fetta di società civile, di famiglie ad una manifestazione potenzialmente traducibile in sciopero ma oggi ancora sfilata colorata del sabato pomeriggio.
Scadenza che, come i precedenti di piazza più massificati, ha fatto incassare in immagine e spendibilità politica i partiti del misero arco d’opposizione, dal Partito Democratico all’Italia dei Valori, fino a Sinistra e Libertà, consentendo ai vari Bersani Bindi Vendola e Di Pietro di fare passeggiate elettorali con ‘belle troupe’ di bandiere al seguito. Se cominciassimo a contestare la strumentalità e l’opportunismo di queste uscite pubbliche ne avremmo tutti da guadagnarci. Lasciarsi distrarre dall’evento, dallo show dei palchi, spesso gremiti della sinistra intellighenzia dello spettacolo, non può legittimare ‘mecenati precarizzanti’ come, ad esempio, l’ex-ministro del lavoro Cesare Damiano a schierarsi oggi ‘contro la precarietà dei giovani’; sarebbe come credere al lupo che promette di non mangiare le pecore!
Mentre incontrare il presidente Giorgio Napolitano sembra sia diventato il desiderio di tutti coloro che han bisogno di conforto e pietà (Luca De Zolt, membro del comitato organizzatore del 9 aprile, l’altro giorno in conferenza stampa raccontava dell’attivismo per incontrare Morpheus, che ha fatto sapere di essere ‘molto preoccupato’ per le giovani generazioni), diventa prioritario nel cammino verso il primo maggio e lo sciopero generale cambiare di segno linguaggi e prospettive delle battaglie, cominciando con il superare la ‘narrazione della sfiga precaria’ – come fin qui fatto soprattutto da un giornale come Il Fatto Quotidiano, tra i maggiori sponsor, insieme a Rassegna, del 9 aprile – ed abortendo i cantori della pace sociale, che son fuori tempo massimo se ancora pensano riformisticamente di adagiarsi ‘per la conquista di patti sociali e welfare’ senza fare i conti con la spinta del conflitto.
Viviamo in un paese che seppur rifletta il suo essere bloccato e stantio, politicamente governato dalla crisi berlusconiana così come dalla pochezza democratica o dall’irrisorietà vendoliana, si prepara ad un mese prossimo nel quale sperimentare e osare, seguendo il poco che si muove ed il tanto che deve essere scosso, immettendosi dentro nuovi spazi di politicità non rassegnati soggettivamente all’immobilismo e all’attesa. Maurizio Ferrara, professore di Scienza politica alla Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, in vista del 9 aprile, su Il Fatto Quotidiano, alla domanda su che fare a partire da oggi, passato l’appuntamento, rispondeva: ‘Proposte, proposte e ancora proposte. Va bene manifestare, ma si deve dare un seguito alla protesta’. Ecco un perfetto esempio da decostruire, ribaltare, in faccia ai feticci della proposta o della democrazia, profittando di ogni spazio ed occasione, puntando diritto contro chi precarizza ed esprime la crisi, partendo dal lavorare per un ‘primo maggio della frattura’ e non dell’unità fittizia, contro chi propugna guerra e ricatti, in Libia come a Mirafiori, con in testa la potenza delle immagini di resistenza di piazza Tahrir e l’entusiasmo dell’urlo ‘Senza casa, senza lavoro, senza pensioni, senza paura!’ della gioventù madrilena.
Se il nostro tempo è adesso, è tempo di fare sciopero e gridare conflitto.
Hammett Riot
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