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Studenti e debito

‘You load sixteen tons, what do you get?

Another day older and deeper in debt

Saint Peter don’t you call me ’cause I can’t go

I owe my soul to the company store’

(Sixteen Tons, Merle Travis)

Questa vecchia canzone country, ripresa da Johnny Cash in una cover del 1987, ci parla di una vita dominata dal peso di un debito spietato, impossibile da ripagare anche col duro lavoro, tanto spietato da disegnare l’immagine di un purgatorio in terra, davanti al quale addirittura San Pietro è costretto a rimandare la chiamata in paradiso del nostro minatore. Probabilmente, all’epoca in cui fu scritta, il debito (privato, pubblico, familiare, studentesco, etc.) non era presente come lo è oggi nei dibattiti politici, nello spazio mediatico e nelle preoccupazioni quotidiane di molte persone. Questa canzone ci parla, tuttavia, di un particolare aspetto della questione, ovvero della radice comune dei concetti di debito e colpa, un rapporto che si è stratificato storicamente. Il debito rappresenta una colpa che deve essere espiata col sacrificio, la rinuncia ed il lavoro. Viviamo in una società nella quale il ricorso alle varie forme di debito è strutturale, addirittura essenziale, al funzionamento dell’attuale sistema economico. Ciò che qui ci interessa è porre il problema da uno specifico punto di vista: quello studentesco, dentro l’Università, dopo il ciclo di lotte No Gelmini. Questione che riteniamo debba essere affrontata in tutta la sua estensione, anche ripartendo dai limiti dentro i quali il movimento si è incagliato, pensando che il capitale vincerà sempre se non diventeremo più veloci della controparte nel comprendere i passaggi, le contraddizioni, i conflitti, per andare anticipatamente ad organizzarli, per farli esplodere.

Uno degli obiettivi della riforma Gelmini, sostanzialmente condivisa da tutta la partitocrazia nostrana, era il taglio pesante del finanziamento statale all’Università. La contribuzione studentesca è diventata una voce importante nei bilanci degli Atenei, determinando una tendenza all’aumento dei costi di iscrizione sostenuti dagli studenti; ad esempio, in questo anno accademico l’Università di Torino ha ricevuto il 33% dei propri introiti dai versamenti degli studenti, in barba al regolamento ministeriale che ne fissava – prima dei nuovi decreti attuativi della legge Gelmini – il tetto massimo al 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario. Il governo Monti, con i decreti sopra citati (numeri 436 e 437), impone, di fatto, l’aumento della contribuzione studentesca, sia per gli Atenei, sia per gli Enti per il diritto allo studio. Le difficoltà dovute a tasse più alte e borse di studio tagliate verranno riassorbite dai cosiddetti prestiti d’onore, forme di debito che gli studenti dovranno ripagare con i loro futuri stipendi. Ciò che avviene è un forzato trasferimento di costi, scaricati dal bilancio statale sul reddito degli studenti e delle loro famiglie. L’esperienza dei paesi anglosassoni ci testimonia quanto sia succulento l’affare del debito studentesco per le agenzie di credito: non a caso si è creata una bolla finanziaria di grosse proporzioni (il 25 Aprile ha raggiunto il valore di 1000 miliardi di dollari), dovuta alla speculazione sui prestiti contratti per accedere all’istruzione universitaria.

La formazione deve diventare un investimento economico per il quale lo studente deve assumere su di sé i ‘rischi d’impresa’: si prende a prestito il capitale iniziale, lo si impiega per produrre una merce (certamente utilizzando della forza lavoro), alla fine la si vende con la speranza di ottenere abbastanza introiti da ripagare il debito e solo dopo, magari, guadagnare qualcosa. Nel nostro caso, la merce da valorizzare sono le nostre capacità, affinate o acquisite ex-novo durante il percorso di studi, che dovremo vendere sul mercato del lavoro, anche a condizioni poco vantaggiose (per noi, non certo per chi sfrutta il nostro lavoro!), ma pur sempre inseguendo i miti del merito e del lavoro cognitivo, creativo, o come lo si voglia qualificare, riconoscimenti che hanno la funzione di stimolare la collaborazione ai fini aziendali, ovvero al (vero e) proprio sfruttamento. Questo è il paradigma a cui vorrebbero conformare il nostro modo di essere e di pensare, insomma la nostra soggettività. Un modello Marchionne  applicato anche al mondo della formazione.

Gli elevati costi da sostenere per l’iscrizione universitaria e la minaccia del debito che incombe sulle teste degli studenti hanno quindi un ruolo di disciplinamento, laddove ogni strappo alla regola dell’efficienza (mantra retorico di un capitalismo neoliberale agonizzante, ai tempi della crisi) comporterà il rischio di non riuscire a ripagare le enormi spese sostenute. Con l’approvazione della riforma Gelmini, entra nella quotidiana vita studentesca il debito, con la sua forza disciplinante, un elemento che estende la sua influenza su tutti gli aspetti della vita: cosa studiamo, in quanto tempo si deve conseguire la laurea, la qualità del lavoro a cui si può ambire durante e dopo gli studi, la possibilità di determinare le scelte sul proprio futuro. Se questo è l’aspetto ‘formativo’ che l’Università gelminiana esplicitamente mette in campo, dobbiamo al contempo riconoscere alla riforma anche il potenziamento dei meccanismi di inclusione differenziale (sbarramenti, numeri chiusi, requisiti minimi, etc), così come il disegno di esclusione di fasce di popolazione dall’accesso all’Università, con l’intento di riorganizzare la gerarchizzazione della forza lavoro nel nostro Paese.

Da un certo punto di vista, possiamo affermare che l’indebitamento, negli ultimi quarant’anni, sia stato un espediente del capitale, in tutta la sua ambivalenza, per sedare il conflitto sulla distribuzione della ricchezza nella società capitalistica. Con l’emersione, da un lato, della necessità da parte delle classi subalterne di godere della possibilità di consumare beni e servizi, accedendo al sogno del benessere, quindi usufruendo di quanto la cooperazione sociale produce; e dall’altro, della necessità della classe capitalistica di realizzare profitto, quindi ottenere quell’alta redditività che era stata seriamente minacciata e messa in crisi dalle lotte della classe operaia fordista. Laddove una quota sempre minore della ricchezza prodotta veniva corrisposta tramite salario, diretto ed indiretto, si è verificato un processo di indebitamento diffuso, sia pubblico che privato, per poter accedere comunque ai servizi ed ai consumi indispensabili per vivere dignitosamente, garantendo, quindi, un rinvio della fase acuta di questo conflitto. Permettendo, comunque, la realizzazione del profitto, nell’esponenziale accumulo di ricchezza nelle mani del capitale.

Nel momento in cui le borse di studio vengono a mancare e le tasse d’iscrizione crescono a dismisura, l’indebitamento diventa, di fatto, l’unica via di accesso all’Università per la maggior parte degli studenti. Un’opposizione senza alternative (posizione che sarebbe morale più che politica) all’indebitamento studentesco è destinata ad essere minoritaria se non anacronistica, visto che oggi la realtà nel nostro paese non è solamente quella di una pessima riforma, la Gelmini, ma quella di una ristrutturazione di sistema capitanata da un ministro, Profumo, che è l’espressione più connotata di una sfera economico-finanziaria che inghiotte la ‘cosa pubblica’. Ma la pubblicità dell’istruzione ha, nella sostanza, costituito un innamoramento, innanzitutto moralistico, che non ha affatto aiutato a chiarire la scena del conflitto sulla formazione, rimanendo spesso arroccati su posizioni stagnanti, impaurite al cospetto di uno spazio metropolitano non profumato dall’ideologica convinzione dell’Università come ‘bene comune’, quasi come un paradiso liberato per i giusti e i meritevoli. Anche in questo il teatro dell’accademia conserva imponenti residuati di una pellaccia gelosa e corporativa, trasmettendola nelle aule di lezione così come nelle assemblee.

E’ noto che nel periodo della grande depressione il famoso rapinatore John Dillinger usasse dar fuoco ai registri dei debiti e delle ipoteche durante i suoi assalti alle banche, conquistando in breve la simpatia della popolazione. Non è un caso. Infatti, negli Stati Uniti, la diffusione dell’indebitamento privato ha una storia molto lunga, più lunga che in Europa o in altre parti del mondo; l’assenza di uno stato sociale forte ha dirottato l’accesso alla ricchezza tramite l’indebitamento dai bilanci statali a quelli privati. Al giorno d’oggi, gli studenti statunitensi convivono con il debito da generazioni, per loro è impossibile studiare senza indebitarsi. Per questo hanno lanciato la campagna Occupy Student Debt che, oltre alle iniziative di piazza, prevede di sottoscrivere l’impegno a smettere di ripagare il proprio debito contratto per studiare all’Università una volta raggiunta la quota di un milione di aderenti. In questo modo le richieste di cancellazione dell’attuale debito studentesco e della copertura delle spese scolastiche da parte dello Stato sono sostanziate dalla minaccia di un’azione collettiva, proprio sul campo del debito e della solvibilità, capace di far almeno impensierire gli squali di Wall Street. Come vuole un vecchio adagio (proprio made in Usa): se hai mille dollari di debito con una banca e non paghi, allora avrai dei problemi; ma se hai un debito di un milione di dollari con la banca e non puoi pagare, allora sarà la banca ad avere dei problemi.

In Italia, il debito studentesco non è ancora una realtà così diffusa, possiamo dire che il processo verso la sua introduzione di massa non è che appena cominciato e, ad oggi, esistono ancora – sempre meno – sostegni pubblici per gli studenti; nel mentre, osserviamo i primi esperimenti del capitale, spesso nelle realtà più piccole e meno popolose, per procedere all’instaurazione di un differente registro. A partire da queste considerazioni parziali, come immaginare un dentro e contro all’Università del debito? Come attivare meccanismi di sovversione dei dispositivi disciplinari di quest’agenzia formativa senza dimenticarci che le nostre vite, i nostri bisogni e desideri si estendono anche al di là dei recinti accademici? In sostanza, quali pratiche collettive possono portare ad una riappropriazione della ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale? Nel contesto di crisi, di dominio del capitale finanziario, di politiche di lacrime e sangue imposte con lo spauracchio del debito sovrano, siamo posti di fronte all’impossibilità di condurre lotte esclusivamente difensive, quindi alla necessità di costruire una prospettiva che vada in direzione diversa rispetto all’esistente, un’alternativa di lotta, perchè lo spazio della contrattazione è comunque inesistente laddove i rapporti di forza sono dominati dal capitale. Pensiamo al conflitto non su un livello domato e solamente rappresentato, ma, al contrario, come processo di lotta reale da andare a costruire, collettivamente, per formare ed aggregare forza e potenza. Altrimenti, ogni citazione concernente la possibilità di vincere, si ridurrà – come è già stato – ad esercizio di stile; abbiamo bisogno di altro.

Il presidente Mao Tse Tung ci insegna: ‘La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. Da qui la necessità di interrogare un nodo, quello del debito, attorno al quale pensiamo non ci si possa limitare alla ripetizione di formulette prestabilite e rituali, come se non stessi affrontando uno scenario differente dal precedente ciclo capitalistico. Non ce lo chiede l’Europa (…), ce lo impone (con segno avverso) la crisi. Laddove dobbiamo andare a rompere quel circolo vizioso, composto dal triangolo del debitore-creditore-moneta, dalle fondamenta. Si impone una cambio di registro che si traduce in nuovo paradigma, fondato non solamente sul peso del debito in termini economici, ma funzionante sull’incisione soggettiva della colpa instaurata nell’agente-umano moderno. Le forme di soggettivazione del capitale si estendono così in profondità che, nel passaggio da un capitalismo pesantemente industriale ad uno sfrontato capitalismo finanziario, ingloba e trasforma quell’etica del lavoro ancora cara ad una noiosissima sinistra novecentesca in un’etica della colpa che immediatamente costringe ad un’emotività debitoria, ad un moralismo subordinato a quanto dall’alto ‘concesso e permesso’. Formazione di soggettività antagoniste significa distruggere la miseria soggettiva costruita, indotta e comandata dal mainstream del capitale, invertendone il segno, per formarla e direzionarla altrove.

Le battaglie sul cosiddetto diritto allo studio – attaccato dal punto di vista del finanziamento pubblico e traghettato nel campo del debito – scontano oggi forme meramente vertenziali e assumono, riproponendole, manifestazioni d’impotenza. Dove queste battaglie hanno scommesso sulla sperimentazione, sulla costruzione di alternativa e non di compatibilità, si sono sviluppate le esperienze più significative. La sfida è di assumere il diritto allo studio, e di conseguenza il prestito d’onore, come terreno di una lotta improntata all’attacco. Chi ambisce a trasformare la grigia realtà che ci circonda ha il compito di cogliere ambivalenze e potenzialità, eliminando le incrostazioni ideologiche di certa sinistra, che rimane prigioniera della maschera democratica e delle forme storicamente determinate del diritto allo studio e che non riesce a vederne la politicità, ovvero il potenziale significato conflittuale. Il diritto allo studio e la lotta al debito sono da intendere come due aspetti di un’unica realtà, come riappropriazione della ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale che viene sottratta al dominio del capitale finanziario, come produzione di contro-sapere dentro e fuori le mura accademiche, quindi come lotta di classe, ovvero lotta per conquistare collettivamente la possibilità di determinare il proprio futuro.

Queste considerazioni, questi pochi appunti, sono per noi l’inizio collettivo di un percorso d’inchiesta e progetto. Commenti ed interrogativi per scandagliare la realtà nuova e sconosciuta che si apre nel fare intervento, nel costruire conflitto, dentro e contro l’Università della crisi. Perchè le domande sono innumerevoli, le idee e le ipotesi anche, ma le risposte, nella loro parzialità, ad oggi, non sono sufficienti:  devono essere costruite, inventate e sperimentate, con l’ambizione di recuperare il tempo perduto ed anticipare quello che sarà, per combatterlo e rovesciarlo. 

Collettivo Universitario Autonomo – Torino

(www.cuatorino.org)

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