Il Tribunale di Torino assolve il poliziotto picchiatore e condanna le donne che non rimangono in silenzio.
Ieri si è tenuta la sentenza a conclusione del processo che ha coinvolto Maya in qualità di parte lesa e imputata per aver ricevuto un pugno in faccia da un poliziotto durante un fermo nel 2017. A conclusione del processo la giudice ha assolto il poliziotto e condannato Maya per oltraggio a 4 mesi di reclusione e al rimborso di ingenti spese. Fuori dal Tribunale si è tenuto un presidio di solidali che al termine della sentenza ha deciso di bloccare l’entrata del tribunale con uno striscione che dichiarava “Il Tribunale assolve il poliziotto picchiatore e condanna le donne che denunciano. Questa violenza non l’accettiamo”. L’iniziativa è stato subito repressa dallo schieramento di forze dell’ordine poste a difesa del palazzo che hanno spintonato e caricato i presenti. In risposta è stato lanciato un appuntamento in solidarietà a Maya per la sera stessa nel luogo dove venne fermata all’epoca dei fatti. Qui, di fronte alla volontà di partire in una passeggiata per comunicare alle persone nei pressi quanto accaduto, la polizia ha caricato e bloccato i e le solidali. Dopo alcuni tentativi il corteo è partito per raggiungere il quartiere Vanchiglia e, durante tutto il tragitto, la polizia è stata arrogantemente con il fiato sul collo dei manifestanti spingendo e provando a impedire di percorrere alcune vie.
Di seguito riportiamo il testo che commenta la giornata apparso sulla pagina #iostoconmaya.
Non si tratta di un caso isolato, non si tratta di un’eccezione, non si tratta di un “fraintendimento”. Eppure, queste sono le parole che le istituzioni incaricate di giudicare questa storia hanno utilizzato per descrivere la violenza agita da un uomo in divisa su una ragazza durante un fermo ingiustificato. Questa è la storia di Maya, una giovane da sempre pronta a lottare per cambiare una realtà ingiusta. Quando non ci si volta dall’altra parte però, si rischia di incorrere nelle maglie di un sodalizio marcio come quello tra la questura e la procura di Torino, sistema che si autoalimenta nel perseguire chi lotta e nel proteggere chi reprime.
Ieri la sentenza della giudice Costanza Goria ha dimostrato questa connivenza senza alcuna remora : se una ragazza denuncia una violenza subita dalle forze dell’ordine sarà lei ad essere punita e il poliziotto ad essere promosso e assolto. Il Pubblico Ministero nella persona di Manuela Pedrotta, nota per avere sulle spalle richieste equivalenti a centinaia di anni di reclusione nei confronti degli attivisti, ha parlato chiaro : il pugno ricevuto da Maya in commissariato fu frutto di un fraintendimento tra i due. Le parole della difesa del poliziotto Luigi Scarantino, tenuta dall’avvocato Gianaria, rappresentano tutto il disprezzo per le donne che osano non rimanere in silenzio. L’avvocato ha un solo consiglio per Maya “se fosse stata a casa quella sera nulla sarebbe successo”. In questo sistema marcio si aggiunge infatti un ulteriore strato di violenze, quelle delle istituzioni che difendono uomini violenti, quelle del ricatto, dell’infantilizzazione, della vergogna sistematicamente agite nei confronti delle donne che denunciano.
Denunciare in questo sistema non è mai scontanto, anzi, è evidentemente rischioso. Ma quello che ieri è stato dimostrato è anche che non è possibile accettare in silenzio. La vicenda di Maya dev’essere un esempio di coraggio e di forza. Durante la serata di ieri la questura di Torino ha agito ancora una volta in maniera sconsiderata di fronte alla solidarietà manifestata per Maya e alla volontà di attraversare le strade della città per comunicare quanto successo. Il presidio di solidali una volta mossosi è stato caricato, poi bloccato su un angolo di marciapiede perché anche incontrare le persone per dire dove sta la verità è qualcosa da impedire. Dopo svariati tentativi il corteo è partito, tanta era la rabbia e tanta era la convinzione di non fermarsi.
Questo è il riassunto di un caso che non è isolato, non è un’eccezione, non è un fraintendimento. Nonostante l’altezza della sfida resta fondamentale raccoglierla : davanti alla violenza patriarcale di un sistema di (in)giustizia volto alla strenua difesa degli oppressori si stagliano le storie di dignità e di tenacia di tutte quelle donne che scelgono di non tacere e di tutte quelle che lo faranno. La sentenza di ieri è l’ennesimo violento tentativo di farci pensare “era meglio se stavo zitta” e mettere un punto a questa storia. E come ribadiamo da mesi, questa violenza va ribaltata: c’è bisogno fin da subito di raccontare e far raccontare questa storia e continuare a seguirne gli sviluppi , di essere megafono per la voce di Maya e di tutte quelle che quotidianamente non vengono credute nelle aule dei tribunali, di schierarsi dalla parte giusta e alzare la voce, perché se non troviamo giustizia nei palazzi è solo rompendo insieme il silenzio che possiamo costruire una possibilità collettiva di riscatto.
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