Danzare contro la violenza
Appunti di riflessione a cura del Laboratorio Sguardi Sui Generis in merito all’iniziativa ‘One billion rising’ tenutasi il 14 febbraio
Nel discorso pubblico la violenza sulle donne è descritta in prospettiva globale soltanto quando la si prende in considerazione a partire da coloro che la subiscono, mai per tratteggiare il profilo di coloro che la compiono: le vittime di violenza sono le donne come corpus omogeneo, mentre i perpetratori della violenza non sono mai raccontati come agglomerato indifferenziato. L’asimmetria nasconde un duplice equivoco di natura politica che è utile esplicitare. In primo luogo, la rappresentazione essenzializzata della vittima (le donne tout court) è funzionale a una descrizione della violenza completamente sganciata dalle forme relazionali che l’accompagnano e dalle condizioni materiali che la favoriscono. Ciò fa si che la generica condanna della violenza non si trasforma mai in una critica reale della violenza che presupporrebbe l’analisi dei canali, delle condizioni e dei luoghi attraverso cui la violenza si produce e si trasmette ai danni di madri, mogli, fidanzate, nipoti, studentesse, e così via. Un elenco orientato non a costituire una tassonomia vittimaria, ma piuttosto a decostruire il significante donna come generico indifferenziato e, soprattutto, dematerializzato.
Come accennato poco sopra, alla strategia di generalizzazione della vittima che caratterizza la narrazione pubblica della violenza sulle donne non corrisponde mai un carnefice generico speculare, identificabile nel sesso maschile in quanto tale. Al contrario, nel discorso pubblico, colui che perpetra la violenza non è presentato come semplicemente uomo, ma come extracomunitario o, talvolta, come bianco deviante. La razza, infatti, è senza dubbio l’elemento che maggiormente caratterizza la costruzione del “carnefice”, sostituita all’occorrenza da una generica storia di devianza o, in extremis, da un biografismo sensazionalista il cui effetto è quello di imprimere il marchio dell’eccezionalità sulla violenza. Le storie di migliaia di donne massacrate tra le mura di casa si trasformano così nelle vicende personali di uomini ricostruite attraverso testimonianze perfettamente accordate: “sembrava un uomo normale”. Inutile esplicitare come nella logica spicciola della cronaca, “sembrare normale” significa non esserlo. Senza neppure troppa inventiva l’eccezione è chiamata a sostituire la norma e la violenza ricondotta alle caratteristiche individuali e psicologiche di vittime e carnefici. Le tipologie relazionali e i rapporti reali tra le parti in causa restano intonsi e lindi.
Dunque – con l’accesso alla sfera pubblica – la violenza di genere viene caratterizzata attraverso due prospettive asimmetriche: come fatto indistinto che riguarda tutte le donne, se osservato da prospettiva femminile (o presunta tale); come fatto particolare stereotipato generalmente su base razziale, se osservato da prospettiva maschile (o presunta tale). L’effetto di questo schema rappresentativo è la rimozione completa e radicale di ogni determinazione relazionale e materiale dei rapporti di genere entro cui s’inscrive la violenza. Ciò fa si – e lo si è detto – che la violenza di genere si trasformi in una sorta di costante casuale, aleatoria e misteriosa della vita sociale. Qualcosa rispetto a cui costruire forme di solidarietà globale e informazione, come si fa con virus e malattie, mali alieni il cui controllo sfugge alla portata dei comuni mortali. In tal senso, forse, la scelta di danzare contro la violenza tradisce addirittura un’involontaria conferma dello schema analizzato. Una danza, infatti, che assomiglia più a un esorcismo che non a una forma di critica e di lotta.
Il secondo fattore di sospetto nei confronti di una danza globale contro la violenza sta nel ragionevole dubbio contro quello che potremo definire una sorta di “fattore anniversario”. Il civismo globale, infatti, impone numerose “Giornate Mondiali” che prevedono forme di raccoglimento riflessivo dell’opinione pubblica mondiale su temi differenti. Senza voler necessariamente gettare in discredito assoluto questo genere di iniziative (che pure mantiene un livello di problematicità elevatissimo, se non altro perché generalmente orchestrate dal piccolo nord globale), vorremo suggerire qualche spunto di riflessione.
Come ci ha insegnato Benjamin, tra la politica e i calendari c’è una relazione stretta. L’idea è che, a differenza dell’orologio, il calendario possa registrare delle discontinuità temporali che testimoniano una sorta di densità variabile della storia. Molto semplicemente, non tutti i giorni sono uguali perché, ogni tanto, può accadere qualcosa di significativo. Ma cosa succede se – per così dire – i calendari si trasformano in orologi? Cosa accade se, fuor di metafora, la capacità collettiva di agire si adatta completamente ai ritmi della vita ordinaria e ai tempi del lavoro e della famiglia, della produzione e della riproduzione? Dal nostro punto di vista, l’effetto è un’assoluta inefficacia politica del fare collettivo proprio perché non si dà alcuna sospensione delle condizioni materiali di cui è intessuta la vita sociale. Si può combattere la violenza sulle donne senza almeno provare a dissestare un poco i tempi e i luoghi della famiglia e del lavoro? A ben vedere, infatti, la danza collettiva di One billion rising non ha raggiunto neppure l’effetto straniante della festa collettiva. E’ stato tutto sobrio, almeno nella sua versione all’italiana (non a caso attraversata anzitutto da Se non ora quando che del civismo decoroso ne ha fatto una bandiera). Tutto è sobrio, ben lontano anche solo dal minimo effetto ironico e provocatorio: sobri il ballo, la musica, i movimenti e l’abbigliamento. Sobri gli spazi e orari: la piazza centrale delle città e la prima serata. Spazi e tempi ordinari, gli stessi che scandiscono quotidianamente la rimozione della violenza. Se non è stata una rivoluzione, non è stata neppure una festa. Niente, nulla: un appuntamento che nel presentarsi sotto la veste dell’evento e dell’eccezionalità non fa che confermare e rinsaldare lo status quo.
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