Appunti di dibattito: per un metodo dell’autonomia
Riflessione del Laboratorio Crash!, pubblicata sul portale francese Plateforme d’Enquêtes Militantes, in cui si articolano alcune ipotesi, coordinate, forme e processi per un’agire antagonista. “Le considerazioni qui riportate sono una serie di appunti che condividiamo a partire dalle lotte che abbiamo costruito, alle quali abbiamo partecipato, e che intendiamo costruire. Sono scritti con l’umiltà militante di chi sa quanto costa osare e sbagliare, e con la passione di chi quotidianamente si batte collettivamente contro il proprio tempo”.
Il bosco era finito. Noi uscimmo su un campo arato senza strada. Rizzandosi sulle staffe e guardando da una parte e dall’altra, fischiando, Surovcev annusò la direzione giusta e, aspirando a pieni polmoni, si lanciò al galoppo.
Isaak Babel’, L’armata a cavallo.
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Una riflessione sul metodo è sempre rischiosa. Si rischia infatti di ripercorrere in maniera acritica una serie di modelli del passato come se fossero verità a-storiche, e di cristallizzare forme di azione che sono invece sempre fluide, mobili, in divenire. Un metodo antagonista è infatti un processo continuo di “ri-scrittura” collettiva, un accumulo di esperienze, una co-spirazione nel senso più letterale: un respirare insieme che si sincronizza. Descrive scarti, salti in avanti, precipitazioni. Ciò che ci proponiamo in questo scritto non è dunque l’indicare IL metodo di un agire politico sovversivo nel presente. Non abbiamo né Verità né Certezze da proporre. Intendiamo piuttosto provare a segnalare alcune coordinate con le quali ci siamo confrontati e ci confrontiamo nel pensare tattiche e strategie nel movimento e per il movimento, all’interno dei conflitti, nella costruzione di forme di organizzazione autonoma.
Scriviamo dunque questi appunti a partire dalle esperienze collettive di militanza antagonista sperimentate da numerose compagne e compagni che hanno consentito, indipendentemente dagli alti e bassi dei movimenti sociali, di sedimentare la continuità di una pratica, di un punto di vista e di un progetto autonomo nella nostra città in connessione con altre esperienze a livello nazionale. Questa serie di processi di lotta (che spaziano dalle occupazioni abitative e di centri sociali agli scioperi nella logistica, dalla lotta No Tav a quelle nel mondo della formazione) ci ha messo in relazione con composizioni sociali decisamente eterogenee e ci ha fatto agire in contesti urbani estremamente differenziati. Ma è proprio a partire da questa molteplicità che riteniamo sia possibile individuare alcune invarianze, alcuni lineamenti di metodo e linea di condotta, che proviamo a proporre in ciò che segue.
Partiamo da un assunto. Una delle conditio sine qua non e una delle poste in palio per l’ipotesi antagonista si misura sulla 1) presenza politica nei territori fisici e sociali. Nella capacità di sviluppare 2) anticipazione, 3) internità, 4) durata, 5) nell’istituire connessioni e rinsaldare 6) plessi organizzativi… mettendo continuamente a verifica questi passaggi in termini di 7) soggettività. Proviamo a riprendere uno a uno i precedenti termini.
Uno degli strumenti che riteniamo cruciali per la costituzione di una prassi militante autonoma, che ne qualifica il metodo, è quello dell’inchiesta. Con questo termine, in via preliminare, intendiamo un lavoro politico bi-fronte. Si tratta infatti da un lato di affinare delle lenti in grado di leggere le contraddizioni che si presentano continuamente all’interno delle modificazioni del rapporto di capitale, siano esse all’interno della “produzione”, della “riproduzione”, delle politiche pubbliche o altro. Indagare dunque la tendenziale emersione di queste contraddizioni è un segnalatore dei possibili campi di conflitto che si aprono. Leggere questi passaggi è un elemento cruciale per scommettere su campi di intervento politico dove è possibile investire energie politiche per lo sviluppo di percorsi di rottura. Una riforma universitaria in discussione può segnalare un terreno di intervento; il taglio a un settore del welfare può esserne un altro; un settore lavorativo particolarmente sfruttato un altro ancora, finanche la chiusura di un parco in periferia può divenire una sorgente di soggettivazione antagonista, un terreno di lotta. Tutti luoghi ambivalenti sui quali è possibile innestare una prassi dentro e contro il rapporto di capitale.
L’altro aspetto che caratterizza l’inchiesta è più poggiato sul versante della soggettività. Si tende qui a indagare, più che le dinamiche “sistemiche”, il mondo dei bisogni e dei desideri della nostra classe-parte. Si tratta di leggere e interpretare politicamente quali pulsioni si muovono sul fondale, spesso per lo più invisibili a prima vista. Quali tensioni inespresse prendono forma nel sociale, quali bisogni o desideri negati possono produrre forme di rifiuto dell’esistente, quali cambiamenti “culturali” possono contenere un segno di conflitto, quali dimensioni antropologiche sono in mutazione e dove è possibile intervenire sulla loro tendenza per curvarle in senso antagonista. Ecco dunque che un bisogno diffuso di accesso a un certo tipo di consumo può costruirsi come lotta sull’autoriduzione di un certo bene. Oppure, altro esempio, un’insoddisfazione per le condizioni abitative può divenire una movimentazione per le occupazioni abitative… Sono questi due terreni dell’inchiesta che servono allora per costruire anticipazioni, ossia ipotesi di intervento politico e organizzativo (2).
Esistono invece contesti nei quali sono già presenti forme di conflittualità sociale più o meno esplicita, o laddove “storicamente” tendono con una certa frequenza a riprodursi emersioni di movimento (pensiamo ad esempio a scuole e università). Sono questi i contesti geografici e/o sociali laddove una militanza antagonista dovrebbe tendere a costruire presenza e internità (3). Ossia sviluppare un riconoscimento sociale delle compagne e dei compagni quali attori al servizio della difesa degli eventuali conflitti presenti, per il loro rafforzamento, per il loro ampliamento, o finanche quale esplicita ipotesi politica di rottura e organizzazione per lo scontro sociale e per istituire livelli espliciti di contro-potere e agibilità politica. Ovviamente l’internità alle lotte e ai contesti sociali non è mai data, è frutto di una continua messa in discussione, un costante ridefinirsi che in certe fasi può vedere le dimensioni militanti come più esposte e in altri meno. Si tende sempre a oscillare tra due estremi: il rischio di un senso di estraneità del militante politico rispetto alla composizione sociale di riferimento e un appiattimento del militante stesso sulla composizione sociale, che porta ad annullarne la capacità di azione. Il punto è come il militante politico è in grado di sintonizzarsi (1) con la composizione sociale di riferimento (siano essi studenti, lavoratori, abitanti di quartiere…), interpretarne le pulsioni, e orientarle verso il potenziamento e la rottura. È in altre parole in gioco il rapporto tra la produzione di conflitto sociale e la sua legittimità.
Questi due livelli di agire politico sono evidentemente intrecciati. L’internità alle lotte e la presenza politica nei contesti territoriali va sempre di pari passo con l’inchiesta, così come le ipotesi sviluppate dall’inchiesta si misurano sempre sull’effettivo grado di lotte e presenza politica che essa è in grado di indirizzare o produrre. A partire da questi due livelli, appunto intrecciati, si pone il problema della durata (4). Ecco un nodo dirimente e spesso scarsamente affrontato. Troppo spesso infatti c’è la tendenza a vivere le lotte o le ipotesi di intervento come fossero ondate passeggere o “esperimenti sociali in vitro”. Si sviluppano ipotesi di intervento per abbandonarle frettolosamente, si inseguono i conflitti come se si fosse turisti delle lotte. Facciamo un paio di esempi. Vediamo spesso compagni e compagne aprire tentativi di occupazioni abitative, per poi abbandonarli dopo il primo sgombero. Oppure andare a un picchetto una settimana perché se ne ha notizia dai giornali, in un quartiere dove ci sono problemi con la polizia la settimana successiva, la settimana dopo ancora partecipare a un corteo in università, per poi chiudere il mese con una protesta contro la deportazione dei migranti. La genuinità e la voglia di messa in gioco è un qualcosa di sempre positivo e da valorizzare, ma purtroppo non basta. In questo senso riteniamo importante un agire politico che si misuri sempre sul problema di una durata degli interventi e dei conflitti, sulla loro capacità di non emergere per poi spegnersi in maniera effimera. Cercando ossia di capire come queste lotte e questi conflitti possono radicarsi (o territorializzarsi, si potrebbe dire), delineare una continua tensione, produrre energie sovversive non in maniera saltuaria. C’è infatti spesso una sorta di “leninismo d’accatto” che gioca a saltare sui conflitti quando esplodono per scomparire quando essi calano d’intensità. Rimanendo in tal modo intrappolati nella figura del “ciclo” di mobilitazione che si apre per poi tornare al punto di partenza. Riteniamo invece cruciale da un lato sviluppare focolai di lotta il più numerosi e diffusi possibile (e ciò richiede pazienza, costanza, tenacia, abnegazione); dall’altro elaborare la capacità di saper far divampare la fiamma, ardere con essa, ma anche cullare le braci e non farle spegnere. Tracciare insomma linee oblique piuttosto che adagiarsi sulla circolarità, o perdersi nelle figure politiche dell’orizzontalità (sorta di piattume delle lotte spacciato per eguaglianza ma che invece reclama solo l’eguaglianza liberale del mercato) o della verticalità (leggasi: autonomia del politico).
Entra qui in gioco l’ulteriore elemento menzionato in questo abbozzato elenco di coordinate, ossia quello dell’istituire connessioni (5). Oggi infatti siamo di fronte a una continua scomposizione e individualizzazione sociale (non c’è qui evidentemente spazio a sufficienza per dedicarci con un minimo di accuratezza a una analisi macro). Una polverizzazione che si definisce attraverso una molteplicità di linee (di classe, di genere, di razza, generazionale, a livello di geografia urbana ecc…) che tende a eliminare la possibilità di aggregazione, la possibilità di uno sviluppo endogeno della nostra classe-parte. Questa frammentazione dall’altro lato moltiplica però anche i fronti possibili di conflittualità. La lotta contro le brutalità poliziesche nei quartieri di periferia e gli scioperi in alcuni settori lavorativi, l’occupazione di un consultorio autogestito e di un’aula universitaria, un corteo degli studenti medi, la lotta contro una riforma, la resistenza alla polizia in una piazza pubblica che vuole essere normata… Sono solo alcuni esempi di lotte e conflitti che a prima vista non possono comunicare tra loro, non hanno nulla in comune. Ecco dunque che laddove l’inchiesta funziona bene, laddove si riesce a creare presenza e internità, laddove si riesce a dare durata ai conflitti, si pone invece il problema di come metterli in comunicazione, come fare in modo che si rafforzino a vicenda. Come far parlare e come far lottare assieme un liceale e un operaio di un magazzino logistico, come tessere legami solidali tra un occupante di casa migrante e uno studente universitario, come far stringere nello stesso cordone una attivista lgbtq con un anziano abitante di periferia sotto sfratto. Qui uno dei nodi cruciali coi quali si scontra la militanza sui livelli medi del proprio agire politico. Non esistono evidentemente soluzioni pre-date a questo tema, e noi per primi solo in rare occasioni siamo riusciti in maniera soddisfacente non certo a “risolvere” il problema, ma quantomeno ad affrontarlo. Stiamo in fondo nominando l’annoso nodo che l’operaismo aveva definito come il problema della “ri-composizione di classe”.
Per poter toccare questo terreno ci si muove tra la capacità di produrre discorso politico agli immaginari, dalle contro-capacità delle compagne e dei compagni di stare nei diversi contesti sociali e tanto altro ancora. Ma l’elemento cruciale, l’ulteriore livello se si vuole, risiede nel tema prima definito come dei plessi organizzativi (6). Ogni lotta, ogni conflitto, sviluppa delle forme di protagonismo sociale “spontaneo” che in quel particolare contesto di contrapposizione viene definendo una propria identità, una propria costruzione di senso, che porta alcuni soggetti a mettersi più in gioco di altri e a voler dare continuità alla propria attivazione politica. Sono questi una delle figure decisive per lo sviluppo dei conflitti, e uno dei compiti dei militanti politici è quello di crescere assieme a queste soggettività e metterle in comunicazione con altre figure analoghe in altri contesti. È su questo passaggio che diviene possibile sviluppare le interconnessioni e definire trame di conflitti che non siano isolati o rapsodici. Sono questi legami che possono stabilire connessioni organizzative durature, laddove quindi da un conflitto emergono delle figure che hanno voglia di mettersi in gioco, e che il militante politico può cucire assieme ad altre.
Siamo quindi giunti al nodo delle forme di organizzazione. Da quanto detto sinora potrebbe infatti insorgere il dubbio che pensiamo la politica antagonista in forma lineare, come un progressivo accumulo di conflitti e di accrescimento organizzativo… Magari fosse così semplice! Tra le varie variabili che rendono questi processi conflittuali e organizzativi mai stabili o lineari non va mai dimenticato ad esempio l’elemento repressivo. Quando infatti non sono dinamiche endemiche alle lotte a farle spegnere (l’ottenimento di un risultato o una cocente sconfitta che tendono a smobilitare, l’incapacità materiale di sostenere il costo della lotta, o altro), lo Stato o le varie articolazioni che possono assumere le nostre controparti sono sempre ben attente ad agire per disarticolare, separare, dividere e spegnere le lotte. Dati tutti questi elementi, ecco allora entrare l’ultimo dei termini cui abbiamo accennato all’inizio, quello della soggettività (7). La temporalità autonoma, come dicevamo, non è mai lineare o progressiva. Le forme di organizzazione non sono mai stabili o riferibili a modelli dati. In questo senso il “metro di misura”, l’efficacia, l’incisività di una determinata processualità di lotta, la messa a verifica del radicamento militante in determinati contesti, è possibile solo a partire dalla soggettività. Ossia, detta in maniera semplicistica (ben altro spazio richiederebbe l’approfondimento di tale nozione), capendo quali sono i livelli sedimentati di esperienze, saperi, strumenti di elaborazione e di intervento, di identità antagonista, di posizionamento sociale, quali strati di rottura si sono depositati negli ambiti militanti e negli ambienti sociali che hanno preso parte o sono stati toccati dal conflitto. Questo patrimonio può essere completamente spazzato via di lotta in lotta, costringendo ogni volta a ripartire da zero. Può invece, se il lavoro politico è stato efficace, cristallizzarsi in varie forme, consentendo dunque di approcciare le nuove lotte a venire e i nuovi terreni di conflitto con la capacità di accelerare i tempi di produzione della soggettività stessa, oliando più affinatamente i meccanismi di comunicazione ecc…
Le procedure, le dinamiche e le dimensioni sinora descritte (in maniera ovviamente molto schematica e a tratti semplificata, speriamo sufficientemente chiara tuttavia) vengono a comporre una complessa macchina organizzativa, un laboratorio di soggettività, un moltiplicatore di conflitti, che però evidentemente designa solo un fronte dell’agire militante. Diciamo che quanto detto sinora definisce una possibile piattaforma di lancio (8) che si definisce in un moto continuo di sottofondo, che talvolta è in grado di emergere anche su livelli alti. Abbiamo in altre parole definito alcune prassi del lavoro militante nel medio periodo, la possibilità di costruire lotte sociali, di partecipare a conflitti esistenti, di sviluppare presenza e radicamento territoriale, di agire sulla potenzialità dello sviluppo di nuovi ambiti di scontro sociale… e sulla capacità di queste articolazioni di determinare plessi organizzativi che producano una soggettività antagonista (1+2+3+4+5+6+7). Il costituirsi di queste piattaforme, sarà evidente da quanto sinora affermato, non può definirle come “isole” a sé stanti, né esse possono svilupparsi attraverso alleanze o coalizioni tra soggettività che rivendicano la loro identità come separatezza. Si tratta piuttosto di meccanismi in continua trasformazione, che “co-evolvono” con i soggetti sociali, con il definirsi dei conflitti, con la materialità delle lotte. Dunque queste piattaforme antagoniste sono per noi i tentativi di creare embrioni di autonomia di classe organizzata, luoghi complessi e discontinui che puntano, attraverso l’inchiesta e l’internità alle lotte, a dare durata e profilo organizzativo a una eterogeneità il più estesa possibile di lotte e soggettività sociali su diversi ambiti e punti territoriali. Queste piattaforme si formano dunque, aggiungendo un ulteriore tassello in una con-ricerca (9): in un divenire comune e nella costante interconnessione tra soggetti militanti e composizioni sociali, laddove dunque con-ricerca per noi non è questione di “stile” o sinonimo di organizzazione, ma una specifica modalità e attitudine nel fare politica.
Piattaforme dicevamo… di lancio! Siamo infatti consapevoli che non saranno mai sufficienti di per sé gli accumuli di lotte a ottenere i grandi fini che come compagne e compagni ci proponiamo, a determinare (assumendo il termine con estrema cautela) processi rivoluzionari, a poter di nuovo tentare un assalto “a quel maledetto cielo”, a materializzare “il sogno di una cosa”. Sono infatti i comportamenti di classe, le loro espressioni di autonomia e rottura, a determinare l’orizzonte materiale per un’ipotesi antagonista. Le forme organizzate, le dimensioni militanti, sono una parte decisiva e irrinunciabile di un processo rivoluzionario a-venire, ma evidentemente da sole sono nulla. I compagni e le compagne possono funzionare come membrane, vibrare coi comportamenti sociali. Come magneti, aggregandone le spinte sovversive. Come segnalatori, indicando la brezza e la rotta giusta per la rottura. Come chiavi di porco, spalancare alcune porte sulle quali il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” potrebbe incagliarsi… ma il punto rimane quello dell’autonomia della classe (dal rapporto di capitale). È quanto definiamo come una “politica sovversiva del border”: le dimensioni militanti come quel segmento in grado di posizionarsi sulle frontiere dello sviluppo dei conflitti di classe per portarli più avanti, in grado di approfondire produttivamente il negarsi della classe in quanto tale (anche in questo caso, come per altri passaggi accennati in precedenza, ben altra trattazione meriterebbe il concetto di classe, che speriamo sia qui sufficientemente intellegibile come dimensione antagonista del rapporto di capitale). Dunque la costituzione di plessi organizzativi è funzionale laddove agevola il definirsi di questo processo di secessione dal rapporto di capitale, aiuta il suo strutturarsi, favorisce il suo definirsi. I processi reali però eccedono costitutivamente (e per fortuna!) le dimensioni militanti. Il rapporto tra forme organizzate e movimenti della classe va sempre dunque guardato a partire dai livelli di autonomia e dalle spinte che la classe stessa esprime (10). Su questo si tarano le forzature possibili, le potenzialità del salto. Quando parliamo di “piattaforme di lancio” il punto è perciò come il lavorio organizzativo militante, le durate organizzative, le interconnessioni soggettive, (contribuiscono a) e arrivano ai momenti in cui si producono “eventi” e si aprono “processualità” che li eccedono. O come questi (quantomeno in parte) contribuiscono a incanalare l’emersione di potenze non preventivabili. La sequenza insurrezionale partita dalla Tunisia a cavallo tra il 2010 e il 2011 e le varie forme di “Occupy” definitesi in tutto il mondo sono state per lo più lette come movimenti “orizzontali” e “senza storia”. Questa è in parte una bugia (nessuna magia metafisica nella storia, esistono sempre genealogie sotterranee che mostrano come le apparenti “esplosioni spontanee” fossero in realtà accumuli sovversivi che cercavano i loro punti di innesco), in parte un “nostro” problema. Guardiamo al secondo versante, per concludere. Tutta la serie di nodi che abbiamo tratteggiato, come dicevamo, può condurre a costruire piattaforme che devono porsi il problema di come difendersi, accrescersi, potenziarsi, e di come poter funzionare quando si aprono processi della portata di quella appena accennata, che ci hanno trovato collettivamente negli ultimi anni per lo più impreparati/e. Possono queste piattaforme funzionare come trampolini di lancio delle insorgenze a-venire per invece tentare nuove e inedite sincronie autonome e sovversive? Siamo convinti di sì, ci muoviamo per questo e in questa direzione.
Lo ripetiamo. Le considerazioni qui riportate sono una serie di appunti che condividiamo a partire dalle lotte che abbiamo costruito, alle quali abbiamo partecipato, e che intendiamo costruire. Sono scritti con l’umiltà militante di chi sa quanto costa osare e sbagliare, e con la passione di chi quotidianamente si batte collettivamente contro il proprio tempo. Con un occhio all’immediato dei problemi più minuti dell’agire militante e un occhio rivolto all’infinito …
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