Mafie, fabbriche aperte e porti chiusi
L’invito del quotidiano tedesco Die Welt alla Merkel di “non cedere!” sui coronabond ed a Bruxelles a “controllare l’Italia” perché gli aiuti “sono una pacchia per la mafia” ha toccato diversi nervi scoperti, ma svelato altrettanti paradossi.
Il primo di essi è che per giustificare le sue tesi il giornale conservatore (espressione non della Germania in sé ma di ricchi editori che portano avanti i propri – aberranti – interessi; ingaggiando anche di proposito il piano internazionale esattamente come tanti altri, dagli attaché russi in Italia allo stesso Conte) cita testualmente i custodi del populismo penale Saviano e Gratteri. Ironia della sorte ma non troppo, perché lo stesso pregiudizio è stato brandito da tutte le forze politiche italiane e dalle loro claque virtuali per equiparare alla criminalità la spesa proletaria di alcune famiglie palermitane al LIDL – un’azienda tedesca, per chiudere il cerchio. E accuratamente evitato laddove si annidava la mafia vera, dagli studi legali alle grandi imprese del nord Italia ed Europa: emblematico in tal senso il processo a cui è stato sottoposto il giornalista Davide Falcioni per aver documentato un’azione del movimento no tav di denuncia di un’azienda in odore di ‘ndrangheta.
Ma il punto non è sbandierare pizze, tulipani, bidet e crauti – un gioco consumato a cui ha sempre fatto appello il liberalismo nella sua transizione all’autoritarismo ed alla guerra – bensì saper riconoscere chi ha permesso ed approfittato di tutto ciò: i “conti in ordine” del governo olandese dipendono anche dal suo ruolo nella divisione europea dei servizi e del lavoro, che è quello di gestori di un paradiso fiscale a tutti gli effetti. In cui aziende delle più svariate consorterie politiche nostrane (come ENI, Mediaset, Luxottica, FCA e Caltagirone) possono eludere impunemente il fisco, i loro versamenti sovvenzionare la pensione di qualche politico xenofobo locale ed i loro dirigenti e proprietari arricchirsi. Tra questi figurano alcuni super-ricchi tra i magnifici 10, una patrimoniale sulle cui fortune basterebbe da sola a garantire un reddito universale incondizionato, alla faccia di chi dice che i soldi non ci sono da un lato e di chi il già misero reddito di cittadinanza voleva abolirlo dall’altro.
La divisione del lavoro internazionale è comunque anche un dogma neoliberale, i cui ruoli e la cui ripartizione dei cui profitti stanno venendo destabilizzati dal Covid-19 – sia tra gli stati che all’interno di questi ultimi. L’Italia, che in questa lotteria ha visto affondare i settori turistico e culturale, è rimasta come hub logistico e terzista per le grandi imprese del Nord Europa: ma negli ultimi giorni è montante lo scontro tra produzione e riproduzione, esemplificato da un lato dal coraggio degli infermieri ed infermiere piacentine pronte a scioperare in caso di riapertura delle aziende produttrici di beni non essenziali. E dall’altro dal governatore ligure filoleghista Toti, che ha invocato la completa deregulation degli appalti pubblici (come nelle peggiori tradizioni renziane dello Sblocca Italia) appena alla vigilia del crollo di un nuovo ponte nella regione da lui amministrata. Nonché dell’ultima performance di sciacallaggio da parte dell’imprenditoria privata a Roma – 15,8 milioni di euro pagati dalla pubblica amministrazione per una partita di maschere chirurgiche mai consegnata.
Ma è un altro episodio ancora a far sfumare le differenze tra liberalismo e sovranismo: la chiusura dei porti firmata due giorni fa dal Ministro dell’Interno. Una mossa legge ed ordine vuota, oltreché inutile: da un lato perché in questo momento persino i paesi di migrazione devono guardarsi dai visitatori occidentali, a cui vengono chiuse le frontiere; dall’altro perchè copre l’ennesima genuflessione dei politici agli interessi del braccio armato, in tutti i sensi, di Confindustria. Infatti, in una apparente vertigine dell’assurdo la Libia (che ha ufficialmente chiuso le frontiere agli italiani) resterebbe qualificata come “porto sicuro” (nonostante il Covid-19 non abbia certo fermato le ostilità, anzi acuite dall’intervento neocoloniale turco), ma è tuttora destinataria delle armi tricolore. Le quali da un lato continuano ad essere prodotte, nonostante sia molto difficile poterle considerare beni essenziali; e dall’altro arrivano sul campo di battaglia tramite triangolazioni che coinvolgono entrambe le parti del conflitto. Resta da vedere quanto reggerà la sicumera di Lamorgese e Bellanova davanti ai campi vuoti per l’astensione dal lavoro degli stagionali, e alle esigenze dei caporali dell’agrobusiness – non meno feroci e spietati dei loro corrispettivi di Confindustria – piuttosto che all’insostenibilità della reclusione in assenza di distanziamento nelle carceri e nei CPR.
Tutto ciò in un’Italia in cui è sempre più “perferzionato” il modello di governo per decreto-legge e, nello scomparire delle forze parlamentari dietro la figura di Conte, sempre più pervasiva la propaganda politica – che non è solo quella di una Bestia per il momento azzoppata, ma anche della legittimazione a suon di meme e sfottò delle pulsioni autoritarie di personaggi come il governatore campano De Luca. E dei 400 miliardi di garanzia per le imprese in un momento in cui queste dispongono di liquidità in abbondanza, mentre sarebbero altre le categorie ad averne urgente bisogno. Ma in cui sono germogliate anche pratiche di indisponibilità a subire l’emergenza ed i suoi costi – dal rifiuto del lavoro alle autoriduzioni, dagli scioperi dell’affitto alle brigate di solidarietà – in una resistenza ad anni di terrorismo mediatico, predazione e cinismo dall’alto, con o senza i congiuntivi al loro posto, che deve diventare contrattacco.
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