Brasile e Argentina. Due specchi per guardare all’Italia.
Tra poche settimane ci sarà una significativa tappa del G20, in una Buenos Aires che ha da poco visto approvare una manovra lacrime e sangue, la quale ha tralaltro comportato il rientro del Fondo Monetario Internazionale nel paese.
Intanto il vicino Brasile (ex capofila dei BRICS da anni in profonda crisi politico-economica) ha appena eletto come nuovo presidente Jair Bolsonaro, una delle facce più reazionarie e brutali della cosiddetta ondata populista globale, con larghi consensi in tutto il paese, dalle zone più marginalizzate a Sao Paulo, la megalopoli da 20 milioni di abitanti dove una persona su quattro è di origine italiana.
I potenti del G20 saranno accolti dal neoliberista Macri, di origini italiane, e dormiranno probabilmente a Palermo, uno dei più grossi e benestanti quartieri di Buenos Aires, suddiviso tra Palermo Soho, Palermo Hollywood e Palermo Viejo.
Già questi rapidissimi accenni possono far riflettere su come la oggi tanto rivangata italianità continui ad essere clamorosamente monca – nella sua “memoria nazionale” e identità – del suo passato coloniale e migratorio, nonché di come oggi l’Italia “post-coloniale”, distribuita in centinaia e centinaia di migliaia di giovani per Berlino, Londra, Parigi e tanti altri luoghi dell’Europa e del mondo e attraversata da nuove popolazioni, necessiterebbe davvero di un potente decentramento per essere compresa.
In questa direzione può essere di qualche utilità guardare alle nostre latitudini al di là del filtro sul quale ci si è spesso adagiati, sia quello del paese del G8, del carro europeo, o l’Italietta, e invece fare un esercizio di “latinoamericanizzazione” dell’Italia, guardandola appunto attraverso questa prospettiva.
Chi sino ad ora ha magari abbozzato qualche passo in questa direzione lo ha fatto in maniera piuttosto misera e posticcia, limitandosi a importare in forma letterale e fuori tempo massimo le idee populiste di Laclau, per altro spesso travisandole e privandole di quella visione bolivariana (ossia sullo spazio continentale) che pur è stata tassello importante dell’esperienza latinoamericana dell’ultimo ventennio.
Proviamo invece a guardare in un altro modo in particolare il Brasile e l’Argentina, che, semplificando, possono essere colte come le due facce complementari della moneta della nostra società di oggi.
Se infatti una cifra generale, un carattere specifico del momento è quello di una tendenziale (nel lungo avvitarsi del post-crisi del 2008 ) convergenza tra neoliberalismo e torsione autoritaria, i governi Macri e Bolsonaro ne sono i degni alfieri.
Due risposte speculari ma non in contraddizione a una serie di nodi irrisolti a livello di economia politica. Uno degli elementi che più lega in maniera manifesta le attuali esperienze di governi neoliberali / autoritari è quella di una necessità di ri-moralizzare la società, di irrigimentare e disciplinare la riproduzione sociale, per poter ulteriormente approfondire (pur con magari differenti colori) il solco delle politiche dell’ultimo decennio.
Non è dunque un caso che sia proprio in Argentina (e nel protagonismo della mobilitazione contro Bolosonaro in Brasile) che è emerso il movimento femminista. Le donne sono state infatti lì in grado di anticipare questa tensione e contrapporsi ad essa. Così come non è un caso che in entrambi i contesti la Chiesa abbia assunto un protagonismo politico che le mancava da tempo: le scorribande anti-abortiste di Bergoglio da un lato; la potentissima ascesa della Chiesa evangelica dall’altro.
Brasile e Argentina hanno due traiettorie storiche recenti piuttosto differenti. Transitate entrambe per feroci dittature, all’alba del nuovo millennio la prima si trovava in una congiuntura economica piuttosto favorevole e sulla spinta di numerosi movimenti sociali inaugurava il ciclo lulista, mentre la seconda – travolta dall’inflazione e sommersa dalle politiche del FMI – dava il là a un potente processo insorgente che sotto lo slogan Que se vayan todos e con la spinta dei piqueteros rovesciava i governi e apriva al periodo dei governi kirchneristi.
Pur con le evidenti e grosse differenze e specificità, le due esperienze inducono in entrambi i contesti a una “mobilità sociale verso l’alto” anche grazie all’intervento dell’opzione cinese nel contesto latinoamericano ma soprattutto grazie al continuo ricorso a politiche estrattiviste – vero nodo irrisolto del cosiddetto “ciclo del socialismo del XXI secolo”.
Questi e altri elementi, tra i quali i continui sobbalzi e scaricamenti della mai terminata crisi finanziaria globale, lasciano oggi le macerie sul terreno con le quali si è aperto questo scritto. Quelli che dalla prospettiva europea erano stati travisati in una lettura banalizzante come “conflitti ascendenti” (il 2013 turco e brasiliano vs il 2011 europeo e statunitense come “conflitti discendenti”), ossia basati su una aspettativa di “crescita” contrapposta a una prospettiva di caduta sociale in Europa, si sono oggi rivelati tutt’altro.
L’errore probabilmente sta nel tipico tic della sinistra che paradossalmente accomuna il lulismo a molti supposti pensatori radicali a svariate latitudini. Così come infatti il PT di Lula credeva di aver costruito una classe media sulla quale poter basare il proprio imperituro consenso, senza rendersi conto che aveva invece creato una “classe operaia” che si è ribellata, così anche l’Italia viene spesso guardata a partire dalla supposta classe media come baricentro politico.
Non rendendosi conto che questa nostalgia keynesiana per un sistema sociale leggibile sulle ascese/discese dell’identità ideologica costituita come “classe media”, semplicemente, non c’è più. E da tempo. Per impattare i potenti processi di trasformazione attuali nuove coordinate sono necessarie per uscire dai piuttosto rovinosi percorsi dell’ultimo periodo.
In questo senso latinoamericanizzare l’Italia può significare anche il cominciare a guardarla a partire da un punto di vista nuovo, il quale più che alle rappresentazioni sociali formali e stantie possa guardare alle traiettorie di composizioni sociali verso un divenire piqueteros, un divenire donna, un divenire finalmente classe come posta in palio di un conflitto entro le nostre città che sempre più vengono inscritte da un paradigma post-coloniale.
La ristrutturazione “populista” mira a imporre nuove forme di gerarchizzazione sociale e di dominio finanziario attraverso l’enfasi su una “sovranità” che è solamente messa al lavoro differenziata sugli assi della generazione, della razza e del genere. La possibile risposta forse sta proprio nella rottura di quella gerarchizzazione e in una rivendicazione – di classe – dei diritti negati a partie non da etichette preconfezionate dalla sociologia, ma dagli effettivi processi di lotta e di soggettivazione.
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