Crash! nella metropoli 2015
Si tratta di un testo che sintetizza una riflessione aperta in corso di elaborazione all’interno e a partire dalle lotte nel territorio bolognese – segnato in questo primo spaccato d’autunno e all’interno di una fase complessa e di transizione, da lotte studentesche, blocchi dell’Interporto, resistenza e cortei di massa per l’Ex Telecom, quella che i giornali hanno chiamato la battaglia di Stalingrado contro la calata leghista in città… e da una miriade di iniziative quotidiane nei quartieri.
Dagli scioperi operai nel mondo della logistica al movimento per l’abitare, dal tema delle soggettività giovanili alla questione del territorio e della metropoli, passando per una riflessione sulle forme di mutualismo e solidarietà nella crisi, ragionando su repressione, lotte e sollevazioni possibili, lo scritto prova a indicare una trama di problemi, nodi e spunti per rilanciare un percorso di antagonismo adeguato a cogliere le sfide del nostro tempo. Ci si interroga dunque sulle forme della militanza e sulle metodologie di costruzione del conflitto sociale, e sulle possibilità di costruzione di un blocco sociale antagonista che sia espressione concreta della ricomposizione di classe nel territorio.
Il tema è insomma quello di come elaborare radicamento sociale, come costruire processualità politiche i cui tempi siano dettati dalle esigenze del conflitto e non dalla rincorsa delle controparti, come in definitiva costruire e consolidare forza per aprire squarci in questo presente che possano far tornare a balenare e brillare le scintille di un’ipotesi rivoluzionaria.
Per fare ciò la proposta che emerge è quella di praticare una netta discontinuità con pratiche, lessici e immaginari ereditati dai movimenti del primo decennio dei Duemila soprattutto legati alla così detta ipotesi cognitivista e al centrosocialismo da terzo settore alternativo.
Rompere dunque con un’eterna ripetizione dell’eguale fatta di pratiche simboliche o che si risolvono unicamente nell’effimera visibilità mediatica e in una somma di like; trasformare la presenza negli ambienti sociali e finanche la forma-corteo – contrariamente ad esempio a chi a quasi quindici anni da Genova continua sempre a ragionare con lo schema delle zone rosse e dei “trappoloni”; disinnescare l’iperbole della tattica e dell’opportunismo negli spazi angusti dei ceti politici a cui si accompagna sempre la mesta ricerca psicoanalitica di un “noi” ridotto a riproduzione del sé militante.
Sperimentare quindi e azzardare con umiltà non retorica e tenacia, e nella chiara percezione dei limiti e delle gigantesche insufficienze che si accompagnano però alla necessità di assumere la sfida e cominciare a “divenire curdo” sul serio.
Il testo è scaricabile in allegato PDF in fondo all’articolo, sotto i pulsanti per la condivisione dell’articolo. Buona lettura.
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In questo ultimo anno di lotta contro la crisi e l’austerità sta iniziando a Bologna una nuova storia. Le periferie e i quartieri popolari iniziano a risvegliarsi dopo decenni, nel segno del riscatto e del rifiuto. A dare la spinta al risveglio è stata soprattutto la lotta per il diritto all’abitare, che tramite le resistenze agli sfratti, le occupazioni abitative, gli sportelli di ascolto e autorganizzazione, le marce e i presidi, ha aperto uno spazio di possibilità di lotta e protagonismo sociale straordinario. E’ come se fuori il centro storico della nostra città, i territori vivessero nell’attesa del colpo capace di attivare un movimento.
A funzionare da innesco e a produrre la spinta c’è l’esperienza collettiva della militanza antagonista sperimentata da numerosi compagni e compagne che indipendentemente dagli alti e bassi dei movimenti sociali degli ultimi decenni ha dato continuità al progetto, alla pratica e a un punto di vista autonomo. Il radicamento delle lotte nella fabbrica della formazione, sia nelle scuole superiori che nelle facoltà universitarie, è una delle sue radici più forti. E l’incontro con le lotte operaie ai cancelli dei magazzini del settore logistico ha dato la possibilità per sperimentare concretamente l’ipotesi di un militanza che a 360 gradi fosse capace di muoversi notte e giorno da una scuola o da una facoltà al resto del territorio, in questo caso ad esempio il grande hub logistico dell’Interporto di Bologna. E’ stata una forte esperienza e una sfida che viveva già latente nelle occupazioni di spazi sociali e nella militanza antagonista quotidiana, e che una volta colta è diventata piattaforma di lancio per nuove battaglie, ipotesi e avventure collettive da vivere col cuore in gola e i pugni chiusi.
La sfida che abbiamo colto e che ha dato il colpo d’inizio alla nuova storia ha preso forma dentro e successivamente alla Sollevazione del 19 ottobre 2013, soprattutto nella sua ipotesi politica più affascinante e forte: in Italia ci sono variegate forme di autorganizzazione nei territori e su differenti ambiti di lotta, ma per fare in modo che diventino minaccia all’ordine della crisi c’è la necessità di assecondare e insistere sulla tensione alla ricomposizione sociale e politica tra i protagonisti e le protagoniste del conflitto in carne ed ossa. A Bologna la relazione, forgiata nel conflitto, tra militanti antagonisti, studenti e studentesse, facchini e istanze di liberazione dallo sfruttamento pulsava già forte nelle situazioni di scontro sociale e politico cittadino… quest’anno il battito ha iniziato a spingere e a farsi largo nei territori periferici della nuova città metropolitana tramite l’assunzione conflittuale della pratica quotidiana del diritto all’abitare.
Con questo scritto intendiamo fissare e proporre a un dibattito collettivo alcuni nodi, ipotesi e analisi a partire dalle domande: quali sono gli obiettivi possibili, le mete a cui tendere, e gli orizzonti che si aprono nell’immediato futuro?
Una nuova sfida per la militanza antagonista nella metropoli
La sottrazione di risorse destinate al welfare tramite le politiche di austerità, dei tagli e del pareggio in bilancio, sta rendendo dei gusci vuoti i corpi intermedi della regolazione sociale, e privando di energia e legittimazione gli istituti della rappresentanza politica delle sinistre e delle forme sindacal-confederali. C’è un progressivo ritirarsi dello stato nella forma del welfare in tutti i territori del nostro paese, al cui posto vengono assegnate le forze dell’ordine pubblico o gli agenti dei servizi di emergenza, che nella stragrande maggioranza dei casi provengono dal settore cooperativistico del privato sociale.
La povertà e i processi di impoverimento, risultato della crisi economica, vengono affrontati con provvedimenti da shock economy che non risolvono i problemi quotidiani di chi sopravvive alla crisi, ma favoriscono imprese e sistema cooperativo – di cui l’esempio di Mafia Capitale tratteggia anche l’intrinseca natura corrotta e la predisposizione al malaffare.
In questo contesto di instabilità sociale e istituzionale si apre nei territori uno spazio importante di possibilità per risolvere le difficoltà quotidiane e la condizione di precarietà e sofferenza in una prospettiva collettiva, mutando nelle lotte la condizione di impoverimento in condizione di potenza. La posta in palio sta nel saper divenire un peso sempre più intenso nella bilancia della redistribuzione, aumentando il costo sociale delle povertà e delle precarietà: si tratta per noi della sperimentazione antagonista nei territori urbani della risposta al “chi decide sulle risorse?”, già lanciata con forza dirompente dai movimenti di lotta contro le così dette Grandi Opere, come ad esempio la Tav. Non ci sono meccanismi automatici e già configurati per dare una soluzione in termini di conflitto sociale alla grande domanda dei movimenti sociali che si spalanca sui territori della crisi. Noi vogliamo iniziare dallo sperimentare una forma di militanza antagonista attrezzata per cogliere questa sfida e che sia capace di esplorare, espandersi, confliggere e consolidarsi ancora di più nella Bologna Metropolitana del 2015.
I primi elementi del laboratorio dello scontro sociale che vogliamo allestire fanno dei soggetti sociali di riferimento i propri compagni di lotta e vita quotidiana, creano e organizzano collettivamente primi istituti del contro-potere (come ad esempio i palazzi occupati), e si esercitano nel mettere in relazione le forme di resistenza e la barricata con pratiche di contrattazione sociale. Stiamo parlando di ciò che abbiamo definito come “Vertenzialità autonoma” nel contesto della crisi a Bologna: è per noi porre in termini esplicitamente belligeranti la dialettica tra “reddito e rendita” e imparare a impattarla sui territori, là dove i bisogni sociali si esprimono in maniera più forte e radicale: nella periferia. Nel laboratorio metropolitano vogliamo trasformare la condizione di povertà e i processi di impoverimento in condizione di potenza collettiva tesa allo sviluppo di una processualità per la ricomposizione sociale antagonista. Ciò significa non solo essere in grado di porre concretamente una “mediazione impossibile”, ma anche e soprattutto di fare della singola vertenza allestita un terreno di crescita e sviluppo delle soggettività sociali coinvolte.
Il meccanismo di trasformazione soggettivo e l’aumento del costo sociale della povertà che si autorganizza sta funzionando tra l’ottenimento del risultato immediato di una lotta, la tensione di questa verso le mete di medio periodo, e l’approssimarsi continuo dell’ampio orizzonte rivoluzionario. La contro-parte è in primis il governo del territorio, contro cui applicare la leva del conflitto per aggredire gli interessi della rendita a favore del reddito e della ricchezza sociale.
Non c’è quindi vertenza senza barricata, e non si dà contrattazione sociale senza mete non mediabili. Non si dà insomma possibilità di avanzamento delle lotte contro la crisi e l’austerità senza che venga prodotto un rapporto di forza reale, concreto e fatto di corpi in carne ed ossa, un tempo impauriti, soli, e divisi, e oggi forti di processi di autorganizzazione rabbiosi e gioiosi.
Costruendo il blocco sociale antagonista
All’ordine del giorno c’è la costruzione del “blocco sociale antagonista”. Ciò significa per noi politicizzare le povertà e le dinamiche di impoverimento e dare collettivamente ai soggetti di riferimento una rappresentazione politica, concreta e organizzata, alla condizione di vita degli insolventi e alle possibili forme di riscatto antagonista. Non si tratta né di artefatti e neanche di rappresentanza del conflitto, ma al contrario di un processo di rappresentazione al conflitto sociale a partire da ciò che c’è, per alludere collettivamente a ciò che potrebbe esserci come continua tensione in avanti.
Non ci interessano astrazioni quali “il precario”, “il migrante”, “lo studente”, “l’operaio”, “l’escluso”, a cui tutt’al più dedicare una parade colorata o una bozza di legge da far cestinare all’usciere del parlamento. Dalla nostra esperienza di lotta quotidiana sappiamo quanto repellono ai soggetti sociali interessati questa sorta di “sindacalizzazioni metropolitane” astrattissime e disarticolate dai contesti sociali. La recente storia sociale del nostre paese ci ricorda quante e che formidabili “spallate” danno le soggettività sociali quando gli si prova ad appiccicare delle figurine colorate addosso! Al contrario una pratica politica della ricomposizione proiettata nella costruzione del blocco sociale antagonista deve vivere dentro e non sopra i processi di aggregazione e riconoscimento reciproco delle forme della povertà e dell’impoverimento. Vivere dentro delle temporalità di sviluppo, che non sempre collimano con le intensità delle avanguardie, ma che nei fatti si affermano come stacco e sconnessione dall’orologio della rendita e dello sfruttamento.
E’ questo processo di secessione, potenziale e in atto, che va tutelato e divaricato, ed è lì che si organizzano la spinta e la precipitazione efficace – si tratti di una giornata di lotta o delle lunghe assemblee che tendono a divenire embrioni di istituti del contro-potere. E’ l’appropriazione di una temporalità autonoma, le cui durate si giocano sull’ottenimento dei risultati immediati, la tensione alle mete di medio termine e poi all’ampio orizzonte che rende efficace per il contro-potere e l’autonomia la pratica dell’accelerazione antagonista.
In questa ormai lunga fase di austerità chi recita lo scontro, per giunta completamente estraneo ai contesti sociali proletari e precari, entra in relazione tutt’al più solo con i media locali di una città, e mentre si invoca maggiore democrazia alle istituzioni dopo qualche manganellata, nelle periferie arriva l’odore di plastica della messa in scena. Ci si propone come protagonisti di una photo-story per i quotidiani web, ma ci si allontana o inimica le soggettività sociali cariche di rabbia e odio che subiscono per davvero la violenza della crisi e dell’austerità, in quanto ancora una volta “parlati” da altri in una sceneggiata mediocre. Al contrario per quanto ci riguarda la posta in palio sta nell’essere presenti politicamente nei territori. Inseguire come blocco sociale antagonista lo stato mentre si ritira e dilegua in termini di welfare, e lì affermare e consolidare il progetto antagonista di trasformazione radicale dell’esistente a partire da riappropriazioni, resistenza, contrattacco e mutualismo.
Lo sviluppo e la difesa di questa processualità non si gioca sul livello di una fantomatica opinione pubblica, dalla quale spesso discende una falsante relazione tra conflitto e consenso, ma sulla capacità di soggettivazione antagonista del territorio e sulla proposta pratica di un progetto autorevole di soluzione conflittuale dei problemi quotidiani provocati dalla crisi. Il blocco sociale antagonista possibile si sperimenta e si nutre così nei micro e macro contro-poteri legati al diritto all’abitare, alla salute, all’infanzia felice, all’alimentazione sana, all’istruzione, alla qualità della vita e all’ambivalente accesso ai consumi. E’ il terreno delle lotte sulla riproduzione sociale che va sviluppato e consolidato: resistere, riappropriarsi, contrattaccare, istituire forme di welfare autonomo!
Mutualismo, solidarietà e conflitto sociale
Con l’aumento della povertà e della precarietà, in Italia come nel resto d’Europa, la cultura della solidarietà tra i soggetti sociali impoveriti sta producendo relazioni di mutuo soccorso molto spesso spontanee e in altri casi capaci di darsi continuità e sviluppo organizzato. E’ il cosiddetto mutualismo, che in forme davvero variegate sta prendendo corpo nei territori aggrediti dalle politiche di austerità. Come prassi politica, il mutualismo organizzato di per sé è sempre esposto al rischio di mutarsi in servizio e assistenza, o limitato all’autogestione della soddisfazione di quello o quell’altro bisogno per un singolo corpo collettivo. Per renderla una pratica davvero “altra” crediamo sia necessario che il mutualismo viva, si sviluppi e organizzi in un contesto di valorizzazione antagonista. Le buone pratiche mutualistiche per essere davvero efficaci, oltre a funzionare ponendosi all’altezza dei bisogni sociali a cui si riferiscono, devono configurarsi come “altra” possibilità di vita nel mentre si lotta e si consolida il blocco sociale antagonista.
O c’è un processo organizzato di autovalorizzazione tra vertenzialità autonoma, conflitto sociale e pratiche mutualistiche, oppure queste ultime non sono altro che attestati pubblici di una buona etica solidale, cosa di cui la periferia metropolitana si fa ben poco visto che ha già a disposizione non pochi sciacalli del privato sociale più o meno cattolico che organizzano la carità. Non c’è alterità o alternativa politica, né mutualismo efficace, senza lo scontro e il conflitto sociale. Riteniamo in altre parole che: o il mutualismo organizza la solidarietà di un territorio in lotta permettendo ad esempio a un operaio di lottare con maggior coraggio per il salario, perché forte di una riappropriazione di reddito e autogestione del diritto all’abitare e all’alimentazione e viceversa, oppure gli strumenti di mutuo soccorso territoriale sono lucciole spente di un alternativa che non c’è.
Lotte operaie e precarietà
Le lotte nel settore della circolazione merci hanno rispalancato con decisione le possibilità conflittuali insite nel rapporto lavoro-capitale, e hanno messo alla prova collettivi e organizzazioni del sindacalismo di base dalle provenienze più disparate. La nostra città dal 2013, e soprattutto durante tutto l’arco di lotta ai cancelli della Granarolo, è stata definita da molti facchini come la capitale degli operai della logistica. In quelle giornate di lotta, una soggettività operaia portatrice di rigidità e potenti “no!” rispetto alla violenza dello sfruttamento, unita ad un sindacato di base capace di farsi strumento dello sviluppo della vertenza, e le forme di organizzazione autonoma soprattutto nel mondo della formazione e sul territorio, hanno permesso di vincere politicamente una battaglia importante contro il colosso del sistema cooperativo italiano. Da quella esperienza abbiamo tratto una grande quantità di saperi, relazioni e possibilità antagoniste. Ma ciò che qui ci interessa annotare è il dato per cui anche lo sfruttamento più feroce e la condizione di precarietà più radicali sono organizzabili al di là e contro il racket confederale, mostrando come un contesto di conflitto concreto – consolidatosi con la silenziosa inchiesta, la quotidiana presenza e la passione militante – nulla abbia a che vedere con le campagne mediatiche colorate o con asserzioni da pagina facebook!
Il conflitto lavoro-capitale e la condizione di precarietà può essere agito nel 2015 a Bologna in una prospettiva antagonista, e gli operai della logistica sono lì ad indicarlo. Noi continuiamo a seguire questa indicazione, indipendentemente dagli alti e bassi delle vertenze sindacali, assumendo il dato che dentro tutto il grande settore della circolazione merci, del terziario e dei servizi c’è una possibilità di organizzazione e di conflitto latente, che attende solo di trovare la vertenza e i compagni di lotta giusti per esplodere sul territorio. D’altronde nel processo di formazione del blocco sociale antagonista il contributo dato dagli operai della logistica è stato e sarà con ogni probabilità decisivo per il suo stesso sviluppo: configgere sul salario forti della riappropriazione dei nessi della riproduzione sociale e viceversa è la possibilità di aumento del potenziale dell’autonomia di classe.
Metropoli: territorio della contesa
Nell’ottica dell’agire antagonista crediamo sia sempre necessario sviluppare forme di intervento politico che esplorino le soggettività sociali con una bussola in grado di individuare puntualmente gli spazi del conflitto, le sue temporalità e i suoi soggetti. In quest’ottica il ruolo del militante politico è quello di funzionare come costante macchina magnetica che si muove nel sociale annusandone le forme latenti di insubordinazione, le istanze di rifiuto contenute nella passività politica, le possibili tendenze di contrapposizione, i potenziali degli immaginari di massa orientabili in direzioni antagoniste all’esistente. Un continuo lavoro di traduzione, interpretazione, elaborazione delle pratiche molecolari di sottrazione, rifiuto, conflitto. Questa attività si muove in un piano che si articola e sovrappone, mai aderendovi completamente, al livello della produzione di ipotesi di organizzazione, di vettori di agitazione del tessuto sociale, della messa a verifica costante di ipotesi di lavoro politico. Questo profilo informe della militanza, nel momento attuale, non fa ricorso a teorie generali, a impianti ideologici definiti. Esso si forma invece nel lavoro costante sul territorio. E’ allora utile spendere alcune parole riguardo a quest’ultimo concetto.
Prendiamo il territorio come un complesso amalgama e assemblaggio di forme di vita, inscritte entro una morfologia che lega assieme storia, modelli giuridici, dispositivi politici, di controllo, di normazione, flussi economici, trame mediali, prodotti architettonici. Un territorio che oggi è sempre più cangiante, migrante, in continua trasformazione. In breve: il territorio come il prodotto costantemente mobile di relazioni sociali. Dunque di sfruttamento, lotte, amicizie, inimicizie, tensioni. Questa materia è un’eterogenea strutturazione di rapporti di dominio e liberazione, sfruttamento e insubordinazione. Il territorio non va dunque a nostro avviso ridotto ad ambiente ostile predisposto dalla produzione capitalista, non è un grande carcere che cattura le possibilità di insorgenza. Ma non è nemmeno l’idealizzazione di quartieri proletari solidali e pronti alla lotta, laddove invece in assenza di intervento politico sono spesso l’anomia, la solitudine, la disgregazione, il gioco d’azzardo e una rabbia incanalabile anche in progetti reazionari a farla da padrone.
Il territorio è piuttosto il prodotto in divenire di una relazione antagonistica, una trama conflittuale, un campo tensivo che non esiste come forma predefinita, né tanto meno unitaria. La forma che esso oggi assume è quella di un processo di urbanizzazione sempre più estesa. Un divenire metropoli che, articolandosi su differenti scale, tende a ricoprire ogni ambito geografico. E la metropoli non è il background contro cui o per cui le lotte si battono, ma un battleground attraverso il quale le lotte si definiscono! Uno spazio di contesa sempre meno segnato dalla capacità di pianificazione delle contro-parti. L’urbanizzazione e la produzione neoliberale ci dicono proprio questo: da un lato lo Stato funziona come ente che deve garantire l’installazione di piattaforme logistiche per la mobilità e la circolazione del capitale e delle merci (e difendere, anche militarmente, tali strutture), lasciando alla (ir)razionalità del privato lo sviluppo della metropoli. Quarant’anni di tale sistema governamentale hanno prodotto un tessuto urbano sempre più disarticolato. Ed è proprio tale “confusione” dei territori che apre enormi praterie per l’ipotesi antagonista.
E’ a partire da tali considerazioni che riflettiamo e ci muoviamo con pratiche politiche orientate nella direzione della (contro)-territorializzazione. Ciò significa in primo luogo sollevare un’istanza di potere che opera nell’ottica di una secessione offensiva di pezzi di territorio. Qualche passaggio in questa direzione l’abbiamo sperimentato, insieme alla composizione precaria e universitaria, nel maggio del 2013 con la cacciata della polizia da piazza Verdi. Episodio che rimane come piccolo esempio, ma significativo se colto come tassello di una potenziale moltiplicazione dei luoghi della contesa. Ci pare inoltre che insistere sul territorio sia un portato che, dalla Libera Repubblica della Maddalena al “movimento delle piazze” transnazionale – dalla Casbah di Tunisi fino a Taksim, viaggia sulle corde dei movimenti su scala globale. Ma questa intuizione deve sapersi definire su un doppio livello. Da un lato la possibilità di precipitazione antagonista, del salto, dell’evento, del cogliere e spingere più in là i momenti della rottura. Dall’altra però anche la cura di una quotidianità che produca qui e ora nuove geografie della città. Corridoi di solidarietà e lotta che attraversino ridisegnandole le metropoli, connettendo in maniera stabile e non episodica case occupate e piazze vissute dalla composizione giovanile, aule occupate nelle facoltà e sedi del sindacalismo conflittuale, centri sociali e palestre popolari, scuole superiori e magazzini in fermento dove si struttura l’organizzazione operaia e territori dove si manifestano forme di socialità endogena della nostra classe, siano essi parchi, muretti di quartiere o altro. Connettere queste differenti forme, sviluppare un riconoscimento reciproco, renderle stabili forme di co-spirazione, di respiri e battiti sincronici, è ciò che intendiamo con il concetto di (contro)territorializzazione.
Si tratta dunque concretamente di “fare territorio”, costruire dei circuiti di lotta e contro-potere permanente con i propri avamposti e le proprie nuove centralità, a partire dalla consapevolezza che oggi anche l’idea stessa di “quartiere” è un qualcosa di mobile, di non pre-dato, ma diviene posta in palio politica di una costruzione antagonista. Una possibilità di appropriazione diretta di spazio con una forma costantemente espansiva, belligerante. Da non considerare mai chiusa in sé stessa. In quest’ottica si inscrive un secondo livello. Se questo piano di sviluppo delle lotte attacca la rendita e vede come contro-parti i livelli variegati di governo del territorio, è necessario anche incidere su ciò che prima abbiamo introdotto come uno dei punti più alti di funzionamento dello Stato sul territorio. Quello dell’instaurazione di linee logistiche che attraversano i territori, li tagliano e li scompongono secondo gli interessi del capitale finanziario globale. Sicuramente la Tav in Val di Susa è un esempio lampante a riguardo. Per ciò che attiene Bologna ci siamo confrontati con una dislocazione di tali dispositivi logistici che è definita da un grosso hub, l’Interporto, ad una dozzina di chilometri dal centro storico cittadino, e una distribuzione puntiforme di magazzini lungo tutto l’arco del territorio metropolitano. Il sabotaggio, l’inceppo, il blocco di questa rete di strutture è elemento strategico per la pensabilità stessa di quella forma politica ancora tutta da costruire dello “sciopero generale d’oggi”. E’ dunque all’incrocio tra questi due piani che riteniamo sia possibile sviluppare un’iniziativa che abbiamo definito come una “logistica delle lotte”, ossia un piano di circolazione metropolitana del conflitto che sappia istituire le proprie rotte, imporre il pulsare rabbioso dei corpi sociali, costruire connessioni e incontro che al contempo blocchino il funzionamento della metropoli capitalistica costruendo i nostri territori insorgenti.
Precipitazioni antagoniste della soggettività giovanile metropolitana
Le precipitazioni antagoniste di massa degli ultimi anni, seguendo l’asse 14 dicembre 2010, 3 luglio e 15 ottobre 2011, Primo Maggio 2015, affermano una predisposizione importante di componenti giovanili a comportamenti di rifiuto e di scontro. Va riconosciuto non di meno che il peso delle soggettività organizzate è cresciuto progressivamente. Il dato è decisamente ambivalente: da una parte c’è l’accrescersi della disponibilità e volontà ad organizzarsi in contesti politici antagonisti e in progetti radicali e rabbiosi di una parte minoritaria ma determinata della soggettività metropolitana giovanile; dall’altra il grado di “spontaneità organizzata” diminuisce. C’è quindi un aumento della partecipazione alle forme di aggregazione antagonista nel territorio da parte della soggettività proletaria giovanile, ma crediamo anche che ci sia ancora dell’inesplorato e moltissimo da sperimentare.
Va tuttavia registrato come tali percorsi, se non vogliamo ricadere in inutili astrazioni, non possano che definirsi a partire dal portato di anni di lotte ed esperienze di organizzazione sedimentatesi negli istituti superiori e nelle università. Questo patrimonio non è sicuramente di per sé sufficiente ad attivare percorsi più ampi di esplosione di una soggettività giovanile. Ma è al contempo una base di partenza che va messa in moto e orientata. Da un lato abbiamo i profondi mutamenti in atto nelle scuole, rispetto ai quali la renziana Buona Scuola prova a suggellare e rilanciare un processo che acutizza la gerarchizzazione di classe. Il forte calo delle iscrizioni all’università è in gran parte dovuto allo scoppio della “bolla del 3+2”. Blocco che si è combinato con lo svanire delle promesse dell’economia della conoscenza, che non ha retto come ciclo espansivo all’arrivo della crisi. Di conseguenza, masse di giovani si sono scoperte disorientate rispetto al nuovo ruolo dell’università e delle possibilità di autovalorizzazione che dentro o contro di essa si potevano perseguire a fronte di un mercato del lavoro bloccato. La rinuncia agli studi universitari si configura come una delle spie di questi cambiamenti. Oggi infatti assistiamo alla piena affermazione di forme di messa al lavoro, rispetto alle quali stage e tirocini non sono che uno degli elementi più vistosi. Dispositivi a favore dei privati che iniziano a investire nella formazione sin dalla scuola dell’obbligo. A ciò si aggiunge un acuirsi delle forme disciplinari (simbolizzate nella maggior concentrazione di potere nelle mani dei presidi) che vanno in parallelo con una aziendalizzazione degli istituti.
Dentro queste ridefinizioni le piazze studentesche bolognesi ci hanno tuttavia consegnato un dato molto interessante. Seppur in forma non ancora chiara e compiuta, una nuova soggettività si sta prendendo le piazze. Una composizione di giovani e giovanissimi provenienti per lo più da tecnici e professionali, che vivono in periferia o nell’hinterland di Bologna, che spesso si accompagnano anche a giovani coetanei che a scuola non ci vanno più. Questa soggettività spesso entra anche in forte attrito con una composizione studentesca liceale, manifestando due tipologie di comportamenti distanti. Ma è proprio in questo intreccio possibile e non ancora compiuto che riteniamo possa approfondirsi una ricerca politica che annodi e definisca un piano di conflitto, inseguendo queste soggettività fino ai loro territori di vita quotidiana. Nella consapevolezza che il tema della scuola si pone in molti casi come aperta ostilità, come un ciclo di disciplinamento e come istituzione nemica. Ciò rende alta la sfida sul come costruire contrapposizione che, a partire dai collettivi scolastici, possa invece definirsi su piano di scontro che con la scuola (quantomeno a prima vista) molto poco hanno a che fare.
Per ciò che attiene la formazione universitaria ci muoviamo entro un panorama in rapida evoluzione. Il definitivo tramonto del Bologna Process, l’applicazione della riforma Gelmini, la dismissione strategica dell’università da parte dello Stato in termini di finanziamenti, il materializzarsi di una disomogeneità che definisce atenei di serie A e di serie B, la fine della speranza nell’università come possibile ascensore sociale, una nuova esclusione e gerarchizzazione di classe… e vari altri fattori stanno ridefinendo il piano del funzionamento sistemico di tale istituzione. Situarsi dentro questi processi, provare ad elaborare ipotesi sulla loro tendenza che contengano progetto politico e possibilità di rottura, è un terreno importante per la progettualità antagonista. Ciò necessita di alcune considerazioni. In primo luogo riteniamo che sia sempre più inutile, analiticamente, immaginare un soggetto universitario come elemento omogeneo per l’intervento. Considerazione che in qualche modo vale anche rispetto al rischio di una assunzione acritica dell’esistenza di un soggetto giovanile. Assistiamo piuttosto al sovrapporsi di molteplici piani su biografie sempre più mobili. L’assunzione di una profonda eterogeneità entro una composizione sociale giovanile non è tuttavia elemento di blocco, quanto di invenzione politica di forme possibili di attivazione. Si tratta dunque, ancora una volta, non di fare una piatta analisi sociologica su come si riproducono tali differenze, quanto di individuare politicamente quali spazi e ipotesi possano funzionare come vortici di composizione. A nostro avviso l’università rimane uno di questi spazi in maniera imprescindibile. Non solo in quanto permangono elementi di “fabbrica della formazione”, ossia di luoghi fisici attraversati da grossi numeri di persone. Ma anche perché proprio la dequalificazione di questa istituzione apre spazi di possibilità per una sua appropriazione collettiva e un contro-uso antagonista. Riteniamo dunque decisivo dare continuità di intervento dentro e contro gli istituti per conquistare spazi. Inoltre l’università è anche sempre più inserita entro circuiti metropolitani: connessa con svariati altri enti formativi; inserita in rete di investimento privato e nel mondo del lavoro; attraversata da pendolarismo e mobilità studentesca e della ricerca ecc… In quest’ottica la sedimentazione di percorsi di autorganizzazione all’interno delle facoltà non può che andare di pari passo con un lavoro politico più ampio, che abbiamo definito come “sui bordi” dell’università. Questa metafora indica il tentativo di produrre “effetti sponda” tra città e università. Dicevamo: lavorare sull’urbano per costruire centralità politiche che siano avamposti espansivi a partire dalla sedimentazione di contro-potere nelle università e giocando sull’effetto sponda tra esse e la città.
I collettivi autonomi che lottano dentro e contro la scuola e l’università capitalistica del 2015 sono quindi una risorsa straordinaria di possibilità per gli ambiti giovanili di organizzarsi e lottare contro la crisi. A partire da ciò riteniamo vi siano tante nuove sperimentazioni da attivare, insistendo sulle pratiche di territorializzazione delle lotte a partire ad esempio dalle possibili connessioni con le occupazioni di case o coi picchetti anti-sfratto, che possono essere un primo vettore attorno al quale sviluppare nuovi incontri nei territori. Sono questi alcuni dei concreti strumenti che, se agiti in una processualità di lotte, possono permettere una relazione con quegli ambiti di soggettività proletaria giovanile che non trova nella scuola o nelle facoltà il proprio ambito di organizzazione adeguato. Queste variegate soggettività presentano bisogni e comportamenti determinati da una condizione di neet, precaria e impoverita, su cui sono gli stigma soprattutto dell’accesso al territorio e alla ricchezza sociale della città a costituirne in negativo l’identità. E’ qui per ipotesi che si costituisce una predisposizione importante allo scontro, dato che è la dialettica con la polizia e “la legge” a costruire una sorta di antropologia metropolitana delle nuove generazioni della periferia.
L’assenza di un progetto antagonista in questo contesto a lungo termine potrebbe essere fatale per un progetto reale di trasformazione dell’esistente, e si potrebbe essere scalzati da altre proposte politiche razziste o fondamentaliste. Essere nei quartieri, saperne ascoltare i battiti e contribuire a indicare e sincronizzare un ritmo antagonista, è per noi uno degli esperimenti e delle esplorazioni da compiere se si vuole essere all’altezza delle sfide del presente. Essere presenti in un territorio come punto di riferimento autorevole per migliorare la qualità della vita, apre alla possibilità di una relazione vera e concreta con gli ambiti giovanili che in modo più violento vengono sbattuti fuori dall’accesso ai consumi e a cui viene proposto un futuro di merda fatto di disoccupazione, precarietà, disagio (morale ed esistenziale) e polizia. Ce ne facciamo ben poco delle autonarrazioni, talvolta anche affascinanti, talaltra vergognosamente ridicole, di eventuali periferie in fiamme, quando non si sa nemmeno quale bus porta in quello o quell’altro quartiere. Tramite i collettivi antagonisti interni alle università, nelle scuole e nel territorio è invece necessario attivare una presenza concreta che, difronte ad una situazione di “crisi”, possa attivare percorsi politicamente formati e orientati ai processi di ricomposizione di classe e all’antagonismo sociale.
Lotte, legittimità, repressione, lotte…
I processi di territorializzazione delle lotte hanno avuto anche il merito in questi anni di esemplificare come la relazione tra conflitto sociale e consenso, sempre pensata in termini dicotomici e legati volenti o nolenti a una “opinione pubblica unitaria” come fantomatico referente, sia un approccio a nostro avviso da scartare, ridefinendo altre coordinate – in quanto troppo spesso i movimenti anche nel recente passato sono su di esso caduti. Il consenso, se si tratta di un percorso di lotte autonome, non va considerato se non in ultimissima istanza. Al contrario ciò che le lotte ci pare abbiano reso manifesto è la centralità del rapporto tra conflitto sociale e legittimità, nodo sul quale ci pare più utile proporre approfondimenti critici.
Messa in maniera secca: chi è interessato a campagne d’opinione ha a cuore e punta al consenso per poi magari tentare la tornata elettorale o comunque un tornaconto di posizioni istituzionali. Per chi al contrario è interessato allo sviluppo delle lotte e alla formazione del blocco sociale antagonista, liberarsi dall’ossessione del consenso – che poi molto spesso viene risolto nell’indice di gradimento mediatico – diviene un passaggio dirimente. Il consenso può essere un eventuale effetto del livello di legittimazione di una battaglia o del conflitto sociale, non il contrario. Pensiamo che comportamenti, pratiche, forme organizzative, prima debbano essere condivise e legittimate nel territorio in cui si articolano e tra i referenti sociali a cui si riferiscono e poi debbano puntare a rompere il campo avverso imponendone la legittimità di uno scarto sempre più avanti. Non si tratta di un progressivo accumulo di like o di servizi giornalistici positivi, ma di partecipazione alla lotta e alle sue forme di organizzazione sempre più vasta e poi dalla sua capacità di sbaragliare, far arretrare e rovesciare le contraddizioni sulle parti avverse.
Prassi e posta in palio della contrapposizione tra il costituirsi del blocco sociale antagonista e la legalità delle contro-parti è allora la legittimità dei comportamenti, degli istituti, e delle pratiche antagoniste con cui si determina e sviluppa il blocco sociale stesso rispetto alle catene imposte dalla legalità dell’ancien régime contro cui ci si batte. Da questo punto di vista la repressione non può che essere considerata come parte-agente nel contesto di lotta e i suoi effetti “sono cose che possono accadere” nella vita di ogni buon rivoluzionario. Non si tratta di assuefarsi alle iniziative repressive e giudiziarie, ma esse vanno collocate nel giusto luogo senza mai cedere a enfatizzazioni nocive e dannosissime per le lotte.
In un contesto in cui la crisi della rappresentanza ha spazzato via la cosiddetta società civile prodottasi nel secondo dopoguerra, il punto di vista e il discorso antagonista non può e non deve sostituire quello spazio che con ogni probabilità è qualcosa di ormai concluso e morto, almeno in quella forma. Se l’altra classe ha perso a mano a mano gli istinti e gli strumenti di intervento garantista non riteniamo attenga all’antagonismo sociale recitarne la parte. E’ un dato che va assunto pragmaticamente e nella sua storicità. Legittimità della pratica costruita con pazienza e cogliendo i grandi balzi, questo riteniamo sia lo strumento per contrastare efficacemente l’iniziativa repressiva. Nel caso in cui lo sbarramento che si ha difronte per legittimare uno sviluppo di pratica e iniziativa sia al momento insuperabile, pensiamo vada consolidato il livello raggiunto, e buona condotta è diversificare subito l’iniziativa e aprire nuovi fronti di intervento sociale e politico. Nei fatti la repressione ha davvero successo quando viene esercitata in un contesto di solitudine sociale o scompone ed isola le componenti del blocco sociale in formazione. Resistere e contrattaccare con la diversificazione e il rilancio dell’iniziativa sociale è la premessa per rendere inefficace la repressione e ricondurla alla sua (disgraziata) materialità di accidente che può capitare. Non va richiesta maggiore democrazia, ma vanno additati i suoi limiti generali e contingenti, tramite l’affermazione e il consolidamento dell’istanza antagonista, e solo in base a questo si dispongono gli strumenti di volta in volta più efficaci.
La legittimità del conflitto e dell’iniziativa antagonista è stata chiara, ad esempio, nelle numerose visite che, a partire dalla scoppio della crisi, hanno fatto nella nostra città i vari ministri dell’austerità e del razzismo istituzionale. In queste occasioni, forti dei numeri e della partecipazione garantiti dai percorsi sociali (importanti ma ancora del tutto insufficienti), le istanze di chi reclama reddito, casa, dignità, welfare e buen vivir si sono scontrate con chi propone un modello di sviluppo a due velocità, che divide tra ricchi e poveri. Nessuna concessione al discorso trito e ritrito della democrazia inapplicata, ma la rappresentazione di una rabbia sociale che nel suo contrapporsi alle politiche del capitale, reclama anche la legittimità a ricostruire un proprio nuovo rapporto di forza. Per il militante significa inserire la prospettiva dello scontro nella propria quotidianità e nella propria cassetta degli attrezzi soggettiva, mentre per i soggetti sociali significa in ultima analisi la possibilità di esprimere la propria istanza politica collettivamente.
D’altronde se si fa dei soggetti sociali i proprio compagni di vita e militanza quotidiana si sa quanto stride alle orecchie la retorica del “deficit di democrazia” a chi quel deficit lo conosce fin dalla culla in termini di calci sulle gengive e cazzotti in faccia tra sfruttamento, esclusione, povertà e razzismo. Al contrario una dimensione di scontro il più largo possibile, a viso aperto, che costruisce le accelerazioni e le precipitazioni a partire dalla temporalità delle lotte e dal bisogno crescente di conflitto sociale, e partire dal lavoro paziente della militanza quotidiana, garantisce legittimazione e riproducibilità aumentando di gran lunga i problemi alle controparti in termini di gestione e applicazione della violenza istituzionale e della repressione di quanto non faccia una presa di posizione di un maître a penser.
Posto questo livello fondamentale di tensione e costruzione della legittimità dell’istanza antagonista sui territori e sui luoghi della riproduzione sociale, allora diventa possibile sperimentare forme di conflitto e organizzazione differenti che alzino la posta in palio nello scontro fra le classi. Di fronte alla reazione della controparte, è possibile trovare proprio nel contesto sociale risignificato da lotte e pratiche di rottura quotidiana la prima barriera difensiva, dopo esserne stato la linea del fronte d’attacco, e a sua volta il nuovo limite da superare per tornare all’attacco più forti di prima. I passi avanti e quelli indietro allora trovano una loro misura nella prassi concreta che modifica la realtà in una processualità di cui finalmente possediamo l’iniziativa e non ci lascia come giocattoli in mano dei media e delle procure.
Le sollevazioni dei territori alla ricerca della ricomposizione possibile
Il nodo problematico del territorio e della periferia nella crisi è stato affrontato in una prima sperimentazione, in maniera dirompente, dalla processualità politica e sociale attivata per e dopo la sollevazione del 19 ottobre del 2013. L’incontro tra i movimenti di lotta per il diritto all’abitare, il movimento No Tav e le resistenze organizzate alle grandi opere e gli operai della logistica in lotta ha aperto uno spazio politico antagonista autorevole che, assumendo la fine della mediazione, affermava istanze incontenibili dalle ipotesi della politica rappresentativa e affermava la possibilità di un corso autonomo del conflitto sociale. Non a caso al 19 ottobre sono stati dedicati diversi paragrafi, per ben due anni di seguito, della relazione annuale dei servizi di intelligence al parlamento, che hanno visto in quella piazza una seria minaccia.
Se “la sollevazione” intesa come giornata di lotta si è fermata al 12 aprile 2014, assedio al ministero del lavoro e prima manifestazione della contrapposizione sociale al governo Renzi, il suo metodo, le sue istanze e la sua prospettiva politica si sono articolati nei territori e hanno prodotto una importante continuità soprattutto a partire dalle lotte per il diritto all’abitare. Il grande tema delle risorse e del “chi decide”, dopo essere stato sollevato in picchi intensivi e di massa sull’asse del 19 ottobre 2013, 30 ottobre 2013, 20 novembre 2013, 12 aprile 2014, si è riarticolato estensivamente sui territori tra “periferie e città”. Dall’occupazione di una palazzina a scopo abitativo fino alla resistenza contro un inceneritore non hanno cessato di attivarsi forme di organizzazione antagonista. La “sollevazione estensiva”, pur tra inceppi e con differenti intensità, ha continuato a svilupparsi funzionando dal nord al sud dell’Italia su una prassi di ricomposizione delle soggettività sociali altrimenti frammentate.
E’ a partire da ciò che riteniamo che la sfida per avanguardie antagoniste all’altezza della fase di austerità e crisi in Italia debba essere quella di ricomporre sui territori, e a partire dal tema delle risorse e del “chi decide”, i soggetti sociali che si attivano per contrapporsi al Piano Casa, al Jobs Act, allo Sblocca Italia, alla Buona Scuola e Università ecc… Non è un caso che le lotte più efficaci che si sono prodotte nell’ultimo anno contro i progetti del governo Renzi siano proprio quelle in cui si è convenuto polemicamente con la contro-parte su un solo punto, “la fine dei corpi intermedi e della mediazione politica”, e si è insistito sulla legittimità dell’istanza sociale al contrario di immaginarne, come corpo politico separato, una sua rappresentazione da imporgli “dall’alto”. Se quindi in questi mesi è mancata una filiera “intensiva della sollevazione”, la sua intuizione politica più grande è crediamo completamente attuale ai processi di lotta reali e concreti. E’ su quell’intuizione, all’oggi sospesa, che bisogna insistere nella prospettiva di costruzione di uno blocco sociale antagonista attrezzato per rompere con la fiction della società dei garantiti del governo Renzi o l’ipotesi reazionaria e nazionalista di attrazione a destra di Salvini.
A rinforzare politicamente questa direzione collettiva dell’iniziativa arriva anche l’attuale esito dell’esperienza di Syriza in Grecia, che dovrebbe far correre ai ripari quanti nella frenesia della “coalizione” ne vorrebbero rappresentare il copia e incolla italiano. E invece si continua a credere che basti una sommatoria di ceti politici più o meno brillanti per fare la scalata vincente nell’autonomia del politico e conquistare il potere! A ben vedere invece la prassi della coalizione, quando si è sperimentata nei territori, ha funzionato più che altro da agente disgregante tra le lotte pre-esistenti, spesso innescando meccanismi di repulsione e rancori più che reciprocità e riconoscimento tra le istanze del conflitto sociale. Basterebbe fare una bella inchiesta tra le soggettività sociali attive politicamente per comprendere che il famigerato ibrido tra dinamica di movimento e ipotesi di rappresentanza è lontanissimo se non ostile ai bisogni sociali e al bisogno di autorganizzazione e ricomposizione che esprime la lotta dei facchini ad esempio, o degli occupanti di case, o degli studenti delle superiori e universitari che non sono disposti a cedere quote di “autonomia sociale” a favore della riedizione più rocambolesca e smart di verticali istituzionali.
La questione quindi è come, quando e dove nello scontro tra “l’alto e il basso” si pratica l’autorganizzazione, che per quanto ci riguarda o è espressione e funzione diretta del movimento della ricomposizione di classe, che abbiamo definito blocco sociale antagonista, oppure è l’ennesimo tentativo, tramite lessico nuovo, per sottrarre autonomia e indipendenza ai movimenti sociali al fine di favorire ipotesi di rappresentanza i cui spazi nel quadro istituzionale sono per giunta chiusi dall’incedere della crisi capitalistica ad oggi. All’educazione all’opportunismo della tattica assoluta del momento e fine a se stessa, allo sprecare tempo ed energie per trovare la sintesi a ribasso tra ceti politici, al lessico startuppista delle “coalizioni a scopo”, al giochino delle verticali istituzionali, preferiamo l’impegnare intelligenze ed energie nelle lotte reali al fianco degli sfruttati e delle sfruttate.
Dunque, e per concludere, crediamo che per lo sviluppo del conflitto sociale, per l’apertura di spazi di possibilità per l’antagonismo, non esistano scorciatoie semplicistiche. Ci pare invece necessario il riconquistare una grande umiltà nel tentare, osare, sperimentare, dare continuità alle possibilità di politicizzazione antagonista della povertà, delle dinamiche di impoverimento, e alla costruzione di relazioni di lotta nell’eterogeneo mondo degli sfruttati e della sfruttate verso ricomposizioni possibili. Attrezzarci per saper cogliere di volta in volta le opportunità per rafforzare politicamente la nostra gente, la nostra classe, ed essere punto di riferimento, tra molte altre esperienze di lotta e conflitto sociale, di una prospettiva ostinatamente rivoluzionaria.
“Il bosco era finito. Noi uscimmo su un campo arato senza strada. Rizzandosi sulle staffe e guardando da una parte e dall’altra, fischiando, Surovcev annusò la direzione giusta e, aspirando a pieni polmoni, si lanciò al galoppo.”
Isaak Babel’, L’armata a cavallo.
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