L’ordine non regna ad Atene
6 luglio ‘15
Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. Non ha rotto con questo l’isolamento della resistenza greca, non può farlo da sola, ma -passione contro ricatto, dignità contro paura – ha sbattuto in faccia a tutti le conseguenze di una crisi che i pescecani dell’euromerdocrazia e della finanza in alto, ceti sociali ottusi o rassegnati o ancora illusi in basso non riusciranno a lungo ad attribuire agli “irresponsabili” greci (anche se è questo oggi il messaggio lanciato e in gran parte recepito nel resto d’Europa).
Dunque, l’ordine non regna ad Atene. Al contrario, abbiamo la prima vera scossa politica in Occidente dallo scoppio della crisi globale. Adesso cercheranno di fargliela pagare carissima. La parola d’ordine a Berlino e Bruxelles è subito diventata organizzare il Grexit, non importa se tra mal di pancia, timori e mugugni di politici e stati di secondo rango o addirittura del padrino d’oltreoceano. Non si può lasciar passare l’idea che resistere è possibile! Il regime change, fallito in forma soft, passa ora alla fase due, quella dura che chiuderà del tutto i rubinetti della moneta puntando a produrre ancora più miseria, caos, scontento e, chissà, “richieste di ordine”.
Non sarà così facile. I passaggi non sono tecnici ma eminentemente politici, e qui la soggettività che si riattiva ha dimostrato che può cambiare le carte in tavola e potrebbe arrivare a date condizioni a rovesciare il banco… Nel frattempo, i fronti sociali e politici nel resto del continente non staranno fermi, al di là delle illusioni nella “ripresa del negoziato” o, peggio, della ricerca del capro espiatorio nella vittima che ha osato ribellarsi.
Senza entrare nel merito della dinamica politica e sociale greca, che conosciamo solo da lontano, è importante mettere a fuoco le variabili strategiche che hanno ricominciato a oscillare vistosamente e che saranno cruciali per l’evoluzione del quadro.
Primo. La vicenda greca dimostra che, oltre una certa soglia, il compromesso non è più possibile, anche solo nella contrapposizione di politiche economiche di per sé non alternative. Le soggettività sono così portate dall’ambivalenza intrinseca al loro resistere (i greci che vogliono l’euro ma non l’austerity) oltre se stesse verso la contraddizione nuda e cruda. Riemergono così le faglie di classe, sopite da decenni di rincoglionimento finanziarizzato, mentre si scongela anche in un paese occidentale il fronte generazionale. Ricompare la contrapposizione alto/basso e ricchi/impoveriti mentre i giovani, precarizzati in tutto, prendono decisamente l’iniziativa incontrandosi con una parte delle vecchie generazioni che finalmente inizia a capire, contro una visione fin qui miope degli interessi immediati, che schifo di mondo sta lasciando ai propri figli (che pure ha coccolato e spesso mantenuto). Ecco un piccolo pezzo di piazza Tahrir che è passato sull’altra sponda mediterranea.
Secondo. Siamo ad una svolta nella parabola dell’Europa. La Germania vede clamorosamente sanzionata la propria incapacità di costruire una grande strategia politica (complice, paradossalmente, la situazione di isola felice nella tempesta globale che per ora fa fluttuare i tedeschi come in una bolla). Non per nostalgie di quel dì – come pensano neopartigiani fuori tempo massimo – ma all’opposto per mancanza di volontà di potenza. Fuor di metafora e per dirla seccamente, ad una sola condizione Berlino avrebbe potuto guidare un’Europa unita e, una volta debitamente ristrutturata (anche nei suoi debiti), “sociale”: a condizione di costruire un polo imperialista anti-Usa proiettato verso Oriente, con meno crescita debito-dipendente e più sviluppo neo-industriale. Per ragioni storiche complesse, oggettive e soggettive, non ce l’ha fatta. La disomogeneità delle economie e il provincialismo degli altri stati europei hanno fatto il resto. La vicenda ucraina, con l’incursione profonda degli yankee nell’area di espansione tedesca a inserire un cuneo profondo anti-russo, è lì a dimostrarlo. Nella vicenda greca Berlino si è poi fatta giocare da Lagarde l’americana che all’ultimo ha rovinato un possibile accordo in cui il governo Tsipras aveva già concesso moltissimo. Con ciò la politica tedesca si avvia nei fatti verso la costituzione di un nucleo europeo più ristretto, che sia l’Europa a due euro o quant’altro, con regole stringenti e senza “zavorre”. Ecco il piano B.
Terzo. Solo una fortissima pressione statunitense sul governo Merkel, volta a tenere la Grecia dentro la Ue, potrebbe portare a un transitorio compromesso tra Bruxelles e Atene. Sia chiaro, Obama vuole anche lui far fuori il governo di Syriza (qualche analista nordamericano parla già di un pericolo Chavez fin dentro l’Europa) ma è preoccupatissimo delle conseguenze geopolitiche di un Grexit, che potrebbe portare i russi al centro del Mediterraneo (mentre già la Turchia si sta allontanando dalla Nato). Non è in grado però di mettere i soldi necessari all’ennesimo “salvataggio” (v. il comportamento del Fmi). Mentre Berlino non vuole. Altra contraddizione.
Quarto. Dietro tutto ciò fa capolino la madre di tutte le questioni: chi paga per i debiti inesigibili greci? Il Fmi (alias Washington) ha già avvisato: devono pagare gli stati europei. Alla Bundesbank già si fanno i calcoli di quanto ci perderebbe anche la Germania da un default greco, inevitabile conseguenza del Grexit. Il re è, fuor di retorica, nudo: la vicenda greca mette in pubblico quello che è il più generale problema (altro che la piccola Grecia!) dell’insolvenza virtuale di molte economie, col rischio di farsi reale non appena i venti della crisi fanno il loro giro. Ed è quello che sta accadendo se solo si guarda al crollo recente della borsa cinese, alla recessione incombente in buona parte dei Brics, ai dati negativi dell’economia statunitense, all’inutilità del QE di Draghi per un rilancio dell’economia reale, ecc. Il gioco dello scarico della crisi, ovvero della distruzione di capitale fittizio da rovesciare sugli altri, tornerà a farsi duro. Altro che ripresa!
Quinto. Da questo passaggio di crisi dell’Europa, quale che sia la forma che assumerà, l’europeismo esce con le ossa rotte, simbolicamente e politicamente, anche se Bruxelles potrà continuare a imporsi con il diktat monetario e finanziario (ma per quanto?). Chiunque percepisce che le “regole” andranno inesorabilmente indurendosi e che non c’è nessuna possibilità di allentarle dentro il quadro dato. (Il twitter-silenzio del cerchiobottista insediato all’italico governo ne è un misero segnale). Un’altra Europa non è possibile, e quella reale va inesorabilmente scomponendosi. È così la fine, che incubava da tempo, anche dell’opzione europeista di sinistra. La scala europea – in astratto più avanzata dei ristretti quadri nazionali – non si è dimostrata nei fatti un terreno di ricomposizione “dal basso” (secondo l’opzione socialdemocratica e/o quella dei movimenti): può spiacere ma, a guardare senza lenti ideologiche, è questa la dura realtà; si è scambiata una costruzione dall’alto per il prodotto di un (inesistente) potere costituente dal basso ricorrendo a un armamentario di “sinistra” morto e sepolto. Prenderne atto non significa affatto cedere alle tentazioni nazionaliste, ma è anzi la condizione necessaria per evitarle. Certo, tutto ciò ci lascia con la questione grossa come una montagna del che fare?
Sesto e ultimo. La tendenza delle confuse e contraddittorie resistenze che, sui vari piani, stanno prendendo o prenderanno corpo in Europa va chiaramente verso il “populismo sovranista” (anche se di per sé non necessariamente anti-euro, come dimostra la vicenda greca). Tanto più se verosimilmente si arriverà al Grexit (che effetto avrà sulla prospettiva e la capacità di incidere di Podemos?). Bisogna farci i conti, e non solo: imparare a sporcarsi le mani con i fenomeni di territorializzazione
ambivalente delle resistenze. Più tempo perderemo ad arricciare il naso, e più saremo tagliati fuori dalle dinamiche reali. Lo abbiamo visto anche da noi, dal No Tav al grillismo ai “forconi” (con tutte le differenze del caso). Certo oggi le condizioni sono meno lineari, ma anche più feconde di potenziale e ampio antagonismo e di risvolti globali (anche geopolitici). Non siamo infatti alla nazionalizzazione del movimento operaio a seguito di una sconfitta storica,come negli anni Trenta del Novecento, ma alle premesse possibili di una ripresa di antagonismo nel quadro del capitalismo globale in crisi. Il “populismo” può essere curvato nel senso di classe, con tutti i rischi del caso, se guardiamo alle esperienze, mai pulite anzi costitutivamente spurie, dell’America Latina, a evitare così derive lepeniste o peggio. Il che significa, fondamentalmente, due cose: fare “pulizia” interna dei responsabili della crisi, forma oggi del far pagare ai ricchi, e socializzare il più possibile le condizioni di vita di chi sta in basso, come transizione ad una riappropriazione del mondo di relazioni e di cose che produciamo. Con questo non è affatto risolto il problema del potere, del rapporto coi governi, più in generale con lo stato, né quello dell’oltrepassamento dei limiti locali e nazionali/stici. Ma almeno avremo provato a impostarlo conquistandoci lo spazio e l’autorevolezza di dire la nostra nel mentre impariamo dalle dinamiche reali.
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