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Ma quindi, sto reddito?

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E’ la domanda che si sente fare più spesso in giro. Spesso con fare denigratorio, altrettanto spesso nel senso dell’attesa, a volte con una punta di speranza. Opinioni che riflettono una polarizzazione sul tema, agita in modo differente dai partiti. “Il reddito” da un lato viene presentato per quello che non è, ovvero una grande svolta all’interno del piano di “eliminazione della povertà”. Dall’altro viene svilito, ridotto a barzelletta in spregio a quello che può significare se non altro in termini simbolici (ogni riferimento alla Boschi è voluto).

Queste prospettive marciano separate per colpire unite. Una serve a far passare dietro la parola “reddito” un violento dispositivo di workfare. L’altra mira a rendere ridicola ogni prospettiva diversa dallo sfruttamento a tempo indeterminato, che viene derubricata a “una vita in vacanza”. Con l’esito che nel migliore dei casi ti abitui ad una proposta profondamente insufficiente, nel peggiore ritorni al there is no alternative del lavorismo sfrenato.

Andando oltre questi giochini. Il piano che a noi interessa è capire che tipo di impatto “il reddito” avrà sui territori, e sulle soggettività che li attraversano. Va detto che contrariamente a quanto avvenuto in passato, quando la prima misura economica era solitamente restrittiva, assistiamo sin da subito ad una prima, per quanto parziale, redistribuzione di denaro.

Questa minima redistribuzione avrà probabilmente un impatto differente sui territori a seconda dei differenti contesti economici. E’ da presupporsi dunque quantomeno una attenzione rispetto alla proposta, che implica anche per l’azione soggettiva delle realtà organizzate un atteggiamento laico nella sua decostruzione politica, e l’assenza di snobismo che possiamo lasciare tranquillamente ai tweet del Partito Democratico.

Provando a sottolineare alcuni punti critici. “Il reddito” consiste in un grande piano di messa al lavoro collettiva, in cui le ore di formazione professionale da attendere – e a cui è subordinata l’erogazione della somma monetaria – di fatto implicano un primo livello di sfruttamento. Il secondo è quello che riguarda la messa in discussione degli affetti. L’obbligo di accettazione di ogni proposta dopo un certo periodo di tempo su tutto il territorio nazionale rischia di essere uno dei temi sui quali potrebbero esserci dei cortocircuiti. Sia per lo sradicamento che ciò comporterebbe, ma anche per la probabile bassa qualità delle proposte offerte.

E’ poi fondamentale focalizzarci sul rapporto tra “reddito” e giovani. Perlomeno nei grossi centri, riteniamo difficile che un giovane possa preferire l’idea di andarsene in qualche località lontanissima da casa per guadagnare poche decine di euro in più rispetto ad un lavoro, anche in nero, in una città che offre di più dal punto di vista esistenziale. La domanda che ne deriva è dunque: “il reddito” dei Cinquestelle è in grado di attaccare ad esempio l’enorme tema della disoccupazione giovanile, a dare una risposta al proletariato urbano a cavallo tra formazione e lavoro nei call center, nei ristoranti, nel delivery? A permettergli non solo una sopravvivenza, ma una esistenza degna, una vita che valga la pena di essere vissuta?

A queste condizioni, molto difficilmente. Sarà necessario avviare da questo punto di vista percorsi di inchiesta non solo sull’atteggiamento giovanile rispetto alla proposta, ma anche su eventuali metodi di aggiramento dei criteri richiesti da parte di questa. Comportamenti della classe capaci di forzare la misura, riappropriandosi di quote di ricchezza quando possibile.

Inoltre, grande attenzione va dedicata a quello che è il grande tema dell’accesso al consumo. Non ci riferiamo unicamente alle polemiche su consumo morale e immorale, ma a quanto la misura possa venire incontro alle esigenze di vita dei giovani in contesti sempre più segnati dal carovita. Gli ultimi anni hanno infatti mostrato come il tema del “consumo” sia da intendersi in senso più ampio come possibilità di acquisire uno stile di vita.

Siamo di fronte a una vera e propria richiesta di massa di “consumo di metropoli” che non potrà certo essere racchiuso dalla lista di beni delle neo-tessere annonarie distribuite dai fantasmagorici navigator governativi. Dietro questa istanza si muove infatti una richiesta di autonomia che rompe soggettivamente sia con le vecchie forme dello stato assistenziale che con una erogazione disciplinante del reddito. Aprendo quindi potenzialità di lotta che sino ad ora sono esplose in riot e riappropriazioni a svariate latitudini, ma che faticano a canalizzarsi in percorsi di riappropriazione distesi su una lunga durata temporale.

L’obbligo di spendere obbligatoriamente la somma ogni mese impedisce di poter immaginare “il reddito” come utile a pensare un progetto di vita a lungo termine. Funzionando più come meccanismo di profilazione soggettiva sulla base degli acquisti effettuati tramite la card e come mancetta di passaggio nelle mani di chi la riceve, destinazione finale le imprese.

Il tema che si apre è in sintesi quello dello scarto tra le aspettative sociali rispetto al reddito pentastellato e la realtà dei fatti. E’ in questo scarto che possono essere pensati processi di messa in movimento, a cavallo tra accesso al consumo e innalzamento delle condizioni di vita.

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