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Methodos per Atene

Intorno al neonato governo greco si affollano amici comprensibilmente speranzosi mentre nemici neri di rabbia volano come avvoltoi e falsi amici twittano viscide aperture. Ha senso allora rovesciare il punto di vista e dichiararsi prima di tutto sim-patetici con il pathos della popolazione greca, con la sofferenza dovuta alla condanna a fare da laboratorio dei “superflui” e con la passione di chi nonostante tutto ha osato alzare la testa e dire basta. Con dure lotte prima di tutto, sconfitte certo, ma senza le quali l’attuale esito elettorale non sarebbe neanche minimamente concepibile.

Rispetto a Tsipras va usato -senza supponenza o ideologismi- un metro (solo apparentemente minimalista) di coerenza interna e di aderenza alla Cosa stessa: il suo è dichiaratamente e di fatto un governo di salute pubblica e come tale vanno valutate le mosse che farà. Non si tratta, attenzione, di adeguarsi alla situazione con becero realismo “codino”. Si tratta invece di farsi le giuste domande e verificare con lucido metodo materialista quale dinamica sociale, politica e geopolitica di rottura il contro-esperimento Syriza può innescare, in Grecia e fuori. Lo vogliano o meno il suo nuovo governo e i greci stessi.

Esempio immediato: l’alleanza di governo con un partito in qualche modo accostabile a un “grillismo di destra”. Gli amici di sinistra di Tsipras già iniziano a contorcersi per giustificare la cosa – e fa sorridere sentire oggi in bocca a già terribili fustigatori del “fascismo” grillino di qui considerazioni (più sensate) sull’analogo greco. Più sensate ma ancora solo tattiche, in tutto simili alla vecchia sinistra che tirava fuori tutto e il contrario di tutto per giustificare le svolte di padrini e alleati… Potremmo dire seccamente: quell’accordo è secondo il criterio di cui sopra quasi inevitabile, dentro le regole del gioco della rappresentanza politica, perché inaggirabile è il rivolgersi da parte di Syriza oltre la propria base sociale e elettorale allorchè la “contrapposizione tra destra e sinistra ha ceduto il passo a un’altra, più urgente, tra stomaco pieno e stomaco vuoto” (cfr. Il patto del Nazarakis su La Stampa). Spiace doverlo riprendere da un quotidiano reazionario ma, appunto per questo, assai preoccupato e più “materialista”.

In effetti, per cosa è stato eletto Tsipras? Di fronte al disastro sociale ed economico che neanche il più becero neoliberista oramai nega, il voto chiede una ricontrattazione con l’Europa sulle durissime condizioni imposte dalla troika e sull’onere del debito pubblico. È un voto (di una grande… minoranza) che viene dopo durissime lotte e in mezzo a primi embrionali tentativi di autorganizzazione sociale, ma anche segnato dalla disperazione e rassegnazione di un tessuto sociale disgregato dal “denaro facile” (così un ottimo report del Manifesto) degli ultimi vent’anni. In parte una spinta genuina al cambiamento, in parte l’ultima spiaggia prima del naufragio definitivo. Insomma, per quello che si può capire da qui, non abbiamo un movimento sociale in piena ascesa ma al tempo stesso le basi sociali potenziali per un contro-esperimento si sono incredibilmente allargate in Grecia, con la fine finita del “ceto medio”, proprio mentre nel resto d’Europa la crisi inizia ad avvitarsi preannunciando che la bonaccia attuale non durerà ancora a lungo.

Dunque, cosa può innescarsi? Due i nodi cruciali.

Il primo è come reagirà quell’insieme di esperienze di lotta e di ricostruzione dei legami sociali che è venuto formandosi nella reazione alla crisi. Un’apertura di credito iniziale, e anche più di questo, nei confronti di Tsipras sta nelle cose. Il problema è se ad essa si accompagnerà un affievolimento delle istanze potenzialmente ampie e antagonistiche e magari un ritrarsi autoreferenziale delle pratiche più radicali, o al contrario se riprenderà con forza un moto sociale più ampio e profondo. Che è anche l’unico vero fattore, all’interno, che può sostenere il tentativo di ricontrattazione con le oligarchie finanziarie per cui Tsipras è stato eletto. Di qui non si scappa, ma non ci sono garanzie al riguardo. Vale la regola: anche solo per ottenere qualche moderato ma effettivo risultato bisogna puntare oltre l’orizzonte neo-riformista attuale. Dunque, ricontrattare il debito ma per fare cosa? Esigere spesa sociale, ma solo per tornare all’assistenzialismo statale? Tornare a “crescere” ma con che tipo di sviluppo? È possibile salvarsi come popolo-aggregato indistinto di “tutte le classi”?

Non si tratta peraltro di chiedere ciò a Syriza, chiusa nel suo orizzonte blandamente neo-keynesiano: è questione di potenza o meno del movimento reale. Il che non significa addossare ai greci un onere impossibile da affrontare da soli, tanto più su questioni su cui noi tutti ancora balbettiamo.

Qui il secondo nodo. Quali spazi di ricontrattazione con l’Europa si danno concretamente? Berlino, Bruxelles e il Fmi, al di là dei toni scontati, sembrano disposti a ibernare per un po’ il debito greco (peraltro giù ristrutturato dall’alto), con uno riscadenzamento e più bassi tassi di interesse. La Germania, che ha già dovuto ingoiare il Qe di Draghi, potrebbe concedere qualcosa per evitare l’implosione della zona euro con il rischio che i frammenti residui finiscano, ai suoi confini, con l’azzannarsi a vicenda o col formare eventualmente un blocco filo-Usa (come già in parte in Est Europa). Ma ci sono dei però piuttosto corposi. Il più grosso è che altri paesi in difficoltà vogliano seguire l’esempio greco, e questo l’èlite europea non può permetterlo perché l’effetto cumulativo minerebbe seriamente la “fiducia dei mercati” finanziari aggravando la crisi. Altro punto dirimente è e resta per i poteri forti la richiesta di “riforme” (leggi: tagli della spesa sociale, privatizzazioni, job act, ecc.). Su questo non transigono neanche i “disinteressati” consiglieri pro-rinegoziazione del debito (a solo carico della Ue, of course) che provengono dal mondo anglo-sassone – dal Wall Street Journal  al Financial Times. Infine, ma non meno importante, c’è la dimensione geopolitica: non a caso, i primi a incontrare Tsipras sono stati gli ambasciatori di Russia e Cina (Pechino non ha reagito negativamente neppure all’annunciato blocco della privatizzazione del porto del Pireo) mentre tra le primissime mosse del nuovo governo c’è l’opposizione a nuove sanzioni europee anti-Putin. È questa una dimensione inaggirabile della questione più complessiva, e forse la leva più forte in mano ad Atene, ben più dell’eventuale minaccia di uscita dall’euro, che giustamente non si vuole. Ma un riorientamento verso i Brics non può non diventare anche il punto più scabroso nella relazione con Bruxelles (e con Washington: attenzione a non fraintendere la mielosa contentezza degli americani per la prima sconfitta subita dall’austerity europea che, dal loro punto di vista, è sbagliata non certo per i tagli che produce ma perché cerca di limitare o ridurre la crescita dei debiti, ovvero il terreno su cui la finanza yankee scorrazza e il dollaro domina).

Insomma, si torna al principio: l’esito e la possibilità stessa di una seria ricontrattazione dipende dalla ripresa della mobilitazione sociale complessiva che elabori in vivo i punti di un programma realmente alternativo. In caso contrario, delle due una: o il governo Tsipras subirà l’effetto logoramento di negoziati europei lunghi, defatiganti e poco fruttuosi, finendo col deludere e aprire la strada a una destra social-liberista all’ucraina; oppure si troverà a scambiare la sterilizzazione dei movimenti con concessioni comunque non sostanziali. Nel frattempo, l’apparato statale, militari e polizia in testa, come minimo si preparano al dopo…

Lo ripetiamo a scanso di equivoci: non si tratta di pretendere tutto dai greci. È proprio il loro isolamento che si tratterebbe di rompere. Solo che finora il massimo di “solidarietà”, nel corpo della stessa popolazione europea, è consistita nella preoccupazione di… non finire come in Grecia! Adesso, si fanno avanti amici veri e amici falsi. Su questi ultimi, i peggiori, c’è poco da dire: governi e forze politiche “pro-crescita” dei paesi in difficoltà che cercano di usare la Grecia come “leva” per allentare la presa di Berlino mentre a casa propria continuano a massacrare stato sociale, lavoro, ecc. Sull’ondata di simpatia, speranza e solidarietà – ancora poco, purtroppo- che il voto greco sta suscitando il discorso è invece complesso e diversificato per paesi dove si è effettivamente lottato contro l’austerity, Spagna e Portogallo su tutti, e paesi con l’encefalogramma piatto. Quanto all’Italietta, lascia però perlomeno perplessi vedere che c’è ancora chi si illude di poter “fare come in Grecia” (ma cosa vuol dire, poi?) andando dietro a zombie di “sinistra” rotti a ogni compromesso politico che oggi tentano l’ennesimo riciclo.

Ma non è l’essenziale. L’essenziale è che, con tutti i suoi limiti, la Grecia ci sbatte in faccia, in forma nuova, alcuni nodi non facili da digerire a “sinistra”. E cioè che per avere la minima possibilità di cambiare il corso delle cose, è necessario che le condizioni di esistenza e di autoriconoscimento della maggioranza della popolazione vengano sconvolte nel profondo; è necessario tornare ad affrontare la questione della “conquista” del potere (non la stessa cosa del governo) qualunque cosa ciò significhi oggi; è necessario affrontare la scabrosa dimensione geopolitica senza adagiarsi sui pregiudizi della coscienza liberal occidentale; è necessario infine chiedersi se lo scontro su scala europea, passaggio ineludibile per evitare chiusure nazionalistiche, è riducibile all’orizzonte di un’altra Europa possibile o non deve guardare oltre iniziando a fare i conti, proprio per la profondità delle contraddizioni raggiunte, anche con l’eventualità che un’Europa diversa da questa realmente esistente non sia possibile. Non siamo certo ai “compiti immediati del movimento” ma non sarebbe male iniziare a discuterne sul serio.

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