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Piazza Al Tahrir, Italia?

Sarebbe fuorviante giustapporre il termine “giornata della collera” ad una possibile riproposizione italica delle modalità di lotta che hanno portato i popoli della Tunisia e dell’Egitto a cacciare i propri raìs Ben Ali e Mubarak. Troppe le differenze di contesto a livello di composizione sia tecnica che politica, troppo diverso il ruolo e la potenza di fuoco di diversi settori dell’opinione pubblica, troppe le differenze tra i poteri relativi dei diversi attori (esercito, ceto
medio etc).

Eppure un sondaggio recente di Repubblica, ripreso nell’editoriale “Sondiamo il terreno” su Infoaut,  mostra come una grande fetta dell’elettorato del cosiddetto centro-sinistra (ma non solo! vedi dati su Udc e Fli) sia disponibile a scendere in piazza e ad utilizzare questa come strumento di contrasto alla permanenza del tiranno di Arcore alla guida del Governo. Un tarlo molto pericoloso, visto che solleticare l’ipotesi di una cacciata à la Maghreb del premier implica anche riaprire quella discussione sulla violenza che dopo il 14 dicembre personaggi come Saviano avevano a tutti in costi (senza riuscirci) cercato di stigmatizzare.

Un sondaggio che, anche se da prendere con le pinze, può farci tirare alcune riflessioni che investono anche una valutazione sui movimenti sociali degli ultimi 2-3 anni, a partire dall’Onda. Se si è sempre detto di come l’Onda avesse costituito la prima risposta di massa al governo Berlusconi, le mobilitazioni di quest’autunno, a partire dal nuovo ciclo di contestazioni al ddl Gelmini sfociato nella guerriglia del 14 dicembre per arrivare alla mobilitazione di Arcore ed alla fortissima presenza numerica nelle piazze convocate dal (contraddittorio) appello “Se non ora quando?”, hanno mostrato come la piazza sia fortemente vissuta e attraversata, riconosciuta come un possibile mezzo di cambiamento sociale e non più osteggiata o vista come inutile ed improduttiva.

In questo lo scenario delle rivoluzioni maghrebine ha sicuramente aggiunto un tassello importante; la presa di piazze come l’Al Tahrir del Cairo funge da punto di raccolta e di accumulo di forze, come luogo simbolo di socializzazione ed opposizione politica. Facendo le dovute proporzioni ricorda, a livello di ruolo svolto nella lotta, le facoltà occupate contro la Gelmini da cui partivano i cortei selvaggi e i blocchi dell’autunno così come i presidi permanenti No Tav da cui si partiva a bloccare la ruspa. Le similitudini sono state colte anche recentemente da Cremaschi in poche stringate righe su MicroMega online.

Quando durante l’autunno il blocco stradale continuativo significava mettere in pratica lo sciopero generale moderno, quello dei precari e dei non garantiti, è possibile che generalizzare quello sciopero significhi rideclinare il modello che vediamo dal Maghreb? E’ possibile bloccare ad oltranza un luogo simbolico, renderlo centro propulsivo e non statico, farlo diventare un luogo accogliente per tutte quelle fasce sociali che si sono, nei loro pregi e limiti, mossi contro il modello berlusconista e sono ancora alla ricerca di un’alternativa che possa coprire quel vuoto di rappresentanza che sta alla base dello slogan sempre più diffuso “Que se vayan todos!”?

Studenti universitari e medi. Metalmeccanici della Fiom e lavoratori dei sindacati di base in sciopero nella giornata del 27 e del 28 novembre. Migliaia di donne e uomini in piazza contro il machismo ed il modello berlusconiano di relazione di potere uomo-donna. Tutti questi segmenti possono, devono, ricomporsi non su appelli cartacei ma all’interno di nuove piazze da conquistare, da difendere per attaccare il nemico e constringerlo alla ritirata. La solidarietà pare potersi allargare ad una fetta maggioritaria del paese. E’ opportuno provare a pensarci, per cacciare il rais nostrano ed estendere all’Italia la degage-mania mediorientale…

 

Maria Meleti

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