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Qualche spunto dalle lotte in corso

Le ultime settimane hanno visto riproporsi una serie di proteste e rivolte in contesti molto differenti ma che pongono domande simili, riproponendo se non un ciclo, certamente una nuova sequenza di lotte: Taksim – Sao Paulo (Brasile) – Tahrir (Egitto). Se istituire una consequenzialità netta tra quanto avviene da un capo all’altro del mondo è una forzatura politicista, pensare le insorgenze brasiliane sganciate da quelle turche che le hanno precedute sarebbe non meno grave, un imperdonabile peccato di miopia.

Soprattutto, sono le lotte che si guardano e si riconoscono, oltre i confini nazionali e le diverse pre-condizioni d’origine, come se i/le proletari/e di mezzo mondo iniziassero a riconoscere un nemico comune e a nominarlo. Anche questa è globalizzazione e un nuovo contro-racconto su di essa inizia a farsi strada, questa volta non voce isolata di avanguardie militanti e rappresentanze politiche alter (no global) ma esperienza concreta di milioni di uomini e donne che scoprono – per necessità, caso, incontro – le possibilità dell’azione trasformativa in comune. E’ lì che le cose cambiano e si aprono dei varchi. Quel che fino a prima era tollerabile e norma, tutt’a un tratto diventa insostenibile e produce rigidità. E’ sempre una piccola goccia che fa traboccare il vaso e cambia le prospettive: quà la piccola difesa di un parco cittadino, là la protesta contro il caro-trasporti… ben misere rivendicazioni di fronte alle fessure che aprono!

Ovunque, nella diversità dei contesti, si assiste alla stessa incapacità sistemica di dare delle risposte a delle istanze che si rivelano tanto più incompatibili quanto più sono semplici e minime. Il contenuto “basso” delle proteste è quello che può di più, perché chiama in causa e fa esporre numeri più alti e con maggiore vigore. Lo scontro diventa duro proprio per la sordità del potere costituito, che non riconosce non tanto le istanze quanto i soggetti che le pongono. Il capitalista collettivo (neoliberale o social-sviluppista) si pensa comunque come unico, variamente declinabile in differenti e articolate forme di governance che comunque non mettono in discussione la struttura economica di fondo e l’assunto per cui le decisioni politiche spettano ad una corporazione di specialisti che regolano una questione che si pretende meramente “tecnica”. Quando il potere “molla” e si dà disponibile a venire incontro a piccole concessioni, il contenuto d’origine delle rivolte è già sorpassato dagli eventi, che hanno allargato smisuratamente il volume dell’esigibile. Qui sta il carattere rivoluzionario di questi processi, che non vanno misurati per i risultati ottenuti ma per l’irruzione di soggetti imprevisti con le loro richieste fuori misura.

Se qualcuno fa notare (a ragione) che la contesa egiziana in corso, per fare un esempio, è molto meno intempestiva e decisamente più esplicita nella sua dimensione politica, nondimeno essa è partita da richieste in fondo minime e ben poco rivoluzionarie: “più democrazia” e “elezioni”, quelle stesse che aldilà del Mediterraneo o dell’Atlantico si palesano nella loro inutilità e stanchezza. Anche lì, determinante è stato il precedente tunisino e l’innesco che ha prodotto per emulazione mostrando, molto semplicemente, che “si può fare”. Più precisamente, dovremmo allora dire che lì si sta giocando una seconda tornata del conflitto, una volta ottenuta la deposizione di Mubarak e archiviata l’alternativa dei Fratelli Musulmani. Come in una spirale in cui, ad ogni giro, le contraddizioni precedenti tornano irrisolte e più radicali nelle alternative che prospettano, chiamando in causa, pur senza volerlo, poteri e soggetti collocati più in alto nella gerarchia sistemica (l’esercito, gli Stati Uniti).

Le caratteristiche comuni sono tali anche nei limiti che evidenziano e che non possono non essere tali per l’ancora poca esperienza che questi nuovi soggetti storici collettivi (non) hanno maturato. L’immediata politicità che mettono sul piatto, se da un lato è forza per la corrispondente debolezza dei poteri statali nel momento contingente, dall’altro aprono una sfida che in molti casi non possono reggere sul lungo e nel precipitare degli eventi l’alternativa è spesso tra la capitolazione o la carneficina (anche qui, non senza interessanti ambivalenze, trovandosi di fronte a forme statali che hanno impegnato qualche decenno di storia nel mostrarsi  “democratici” e rispetosi dei “diritti umani”).

Sul medio-lungo periodo, per concludere senza pretese, si porrà con sempre maggiore forza il nodo dell’organizzazione e della sua funzione politica, certamente interna a  queste composizioni e rivolte ma capace  di guardarè un po’ più in là nel tempo e nello spazio, immaginando e proponendo direzioni nuove. Qui i movimenti e la multiforme, ibrida ma via via definentesi nuova composizione di classe è terribilmente indietro e impreparata, mentre la nostra controparte, pur nelle sue incapacità e limiti, possiede mezzi, capacità, saperi accumulati, gerarchie funzionali, think tank e tanta, tanta spregiuticatezza. Nel mettere il dito in questa piaga non ce ne tiriamo fuori, intendiamo solo evidenziare che sarà questo uno dei nodi baricentarli dello sconto politico a venire: la costruzione di nuove forme organizzative capaci di porsi come nuova funzione di parte, la nostra, mai come oggi così evidente e riconoscibile nelle diversità del suo manifestarsi.

 

Red. Infoaut

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