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Se si perde il pelo… ma non il vizio

Tra i tanti capitoli della saga che tenta disperatamente di dare un governo stabile al paese, i più insopportabili sono quelli riguardanti la nomina del nuovo Presidente della Repubblica. Nella disputa sul chi mettere sullo scranno della “più alta carica dello Stato”si concentrano due ossessioni dannose. Da un lato quella carica rappresenta il non-plus-ultra del formalismo (“conta come la Regina in Inghilterra” si diceva qualche anno fa); dall’altro, contradditoriamente, l’operato di Napolitano e (in parte) dei suoi predecessori ha rimesso al centro il potere di direzione di questo ruolo, complice anche lo spostarsi della sovranità effettiva su piani più alti dello stato-nazione (il “pilota automatico” – leggi: Capitale – come lo ha definito Mario Draghi). Negli interessi della casta politica nostrana l’attaccamento a questa figura istituzionale tiene insieme (senza contraddizione) l’interesse per la forma “da salvare” dell’Istituzione e la nomina di una poltrona che, nel generale decadimento di consenso e efficacia, conta sempre di più (col beneplacito di un Massimo Cacciari – e di tanti altri aspiranti consiglieri di un Principe che non c’è- verso un più deciso presidenzialismo).

In questa ridda di preoccupazioni per la “salvaguardia delle istituzioni democratiche”, brilla per debolezza e stupidità il procedere della scelta dentro il Movimento 5 Stelle. Non ci stancheremo di ripetere che il vero merito dell’irrompere di questo strano soggetto dentro il parlamento sia stato il carattere di diversità e anomalia che ha rappresentato in seno all’organo legislativo-rappresentativo. Dove i 5 Stelle si piegano alla ragionevolezza e alla necessità di composizione di un equilibrio istituzionale, perdono di efficacia e reale capacità di cambiamento. La lista dei nomi su cui i grillini stanno votando sono per almeno 1/3 impresentabili, per un altro terzo funzionali alla più noiosa compatibilità: Bonino e Prodi rappresentano la più bieca continuità di sistema, dove la scelta è tra l’esser stati affiliati al gruppo Bilderberg o consulenti della Goldman Sachs; su Caselli non stiamo neanche a pronunciarci, lasciando parlare gli stessi grillini di valle che hanno ben sintetizzato in questa sentenza lapidaria (“in Val Susa non potremmo più mettere piede) l’eventuale conseguenza di una scelta tanto maldestra. C’è invece chi punta alla ragionevolezza e prega i colleghi (non sappiamo se il termine “compagni” aggrada gli adepti del M5S) di convergere sui presentabili Rodotà o Zagrebelski, offerte (si dice) che il Pd non potrà rifiutare… Il primo sembra eccitare compagn* e società civile che di percorso in percorso (tra il cavallo perdente Sel e le Albe mai sorte) non sembrano imparare niente dai propri fallimenti e da oggi ripunteranno tutto su improbabili “costituenti” già  costiuite e lontani dai luoghi comuni della sofferenza e della rabbia di chi non ce la fa più. Dell’immacolato Zagrebelski, icona di tante speranze per i formalisti democratici, ricordiamo l’uscita della scorsa settimana all’inaugurazione della Biennale della Democrazia a Torino, quando rifiutò d’incontrare i profughi in mobilitazione perché la sua idea di “democrazia” è quella per cui i governati (specie se appartenenti a particolari categorie) devono stare al loro posto. Sugli altri non stiamo neanche a dilungarci, perché non è nostro interesse consigliare o indicare il male minore di un ruolo che, in ogni caso, non può che produrre danni per chi sta in basso. Quello che ci preme ricordare, per chi si cimenta sul piano della rappresentanza, è che appunto nulla si può trasformare se si resta ancorati al principio della governabilità, quando solo la sua messa in discussione cosituisce una minaccia per chi ci comanda, riproducendo il sempre uguale, cambiando tutto per non cambiare niente.

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