A chi ci chiede perché non votiamo…
Nei discorsi da bar o per strada, con gli amici o i parenti, spesso il dibattito che si sviluppa con chi partecipa ai movimenti attivamente e ha deciso di non votare alle prossime elezioni suscita stupore quando non reazioni attonite. L’arco di tesi che sostengono il voto sono molteplici e in parte, alcune, hanno anche un velo di legittimità. C’è chi sostiene ancora l’immancabile teoria del meno peggio, chi tira fuori la tiritera del voto utile, chi “allora preferisci che vinca Berlusconi?”; chi, in maniera più fine, sostiene la rottura del bipolarismo che bene o male ci ha governato per vent’anni e la possibilità con l’apparire sulla scena di nuovi soggetti politici di piegare le istituzioni o almeno provare a farlo su posizioni che giovino ai moviment; chi invece, ben consapevole che il voto cambierà poco, preferisce però un sano disordine sotto il cielo parlamentare (quest’ultima è forse una delle posizioni più leggittime). E allora perchè non votare?
C’è innanzitutto da capire come funziona la democrazia rappresentativa italiana oggi, confrontarsi con realismo con i giochi politici che vengono fatti e con i ruoli che ricoprono i singoli partiti. Se si guarda con una lente che va oltre il piano nazionale. è abbastanza chiaro che le possibilità di manovra, senza forme di rottura radicale, dentro le istituzioni democratiche, sono molto poche. L’esperienza greca (ben più strutturata e significativa) ci insegna quanto i diktat internazionali pregiudichino in primo grado i risultati elettorali (si pensi al ricatto del deficit) e, in secondo grado, traccino una linea politica da seguire “per restare nel contesto Europeo”. In questi termini la rimozione totale di un punto di vista di classe anche nelle rappresentanze della sinistra più sinistra lascerà, nel post-elezioni, un carrozzone sgangherato che probabilmente andrà in pezzi molto presto; dall’altra parte chi come Grillo propone opzioni di fuoriuscita dall’Unione Europea come panacea di molti mali, non fa il conto con un sistema reale molto più articolato e complesso di diversi anni fa, sottovalutando anche l’importanza di forme di opposizione all’austerity e al rigore che si articolino su piani transnazionali.
Partendo dalla considerazione che a livello di direttive economiche gran parte dei giochi non si fanno su un piano italiano, risulta anche più semplice leggere un sistema dei partiti che, comunque vada, vedrà un Monti con una lista mediocre che difficilmente toccherà il 15% avere un ruolo centrale su qualsiasi governo vada a consolidarsi. La battaglia che si gioca è in realtà tra due, tre sfumature del rigore leggermente diverse, dove addirittura una politica completamente neoliberale come quella del PD con qualche piccola e fragile retorica sul sociale non può e non deve vincere completamente, ma deve rimanere sotto l’occhio vigile dei “tecnici” che hanno ormai dismesso quella patina solubile di imparzialità e si sono manifestati effettivamente in tutta la loro politicità.
La crisi della rappresentanza così com’è però non ha significato però spesso la crisi di quel senso civico di molta sinistra perbene, che assegna al voto ancora un senso di sacralità non facendo i conti con il fatto che bene o male il potere di questo “diritto” è ormai quasi completamente inesistente ed espropriato. Dall’altro lato chi ragiona sul “meno peggio” non riesce (e in alcuni casi non vuole) guardare in una prospettiva di più lungo termine, non ha lo spirito di immaginare un processo di cambiamento più ampio e radicale e si adatta a dare il proprio contributo in quelle rare occasioni elettorali.
#nonvivotiamoperché
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