Il tempo del rifiuto
Fin dall’inizio del dibattito nostrano sulla situazione greca abbiamo criticato un doppio atteggiamento ideologico: da un lato quello di chi vedeva acriticamente in Syriza il “buongiorno”, sperando di poter esportare in Italia la ricetta elettorale di successo; dall’altro quello di chi, altrettanto acriticamente, si rinchiudeva su posizioni settarie, accusando il partito di Tsipras di aver prosciugato le lotte e sperando in un suo fallimento. Contro i primi, pensiamo che non sia sul piano elettorale che si gioca la partita della trasformazione. A differenza dei secondi, pensiamo che le contraddizioni che si aprono anche sul piano istituzionale possono essere (talvolta) utilizzate dai movimenti. Tanto più se quelle contraddizioni hanno la loro origine e spinta costrittiva proprio nelle lotte, che in Grecia sono cominciate con le mobilitazioni universitarie nel 2006-2007 contro il Bologna Process, esplose l’anno successivo nella rivolta di massa seguita all’assassinio di Alexis Grigoropoulos, continuate nella battaglia senza tregua contro le politiche di austerity e il Memorandum e nelle tante esperienze di autorganizzazione sociale della vita di interi quartieri. Il governo d Syriza, piaccia o non piaccia ai suoi dirigenti, nasce anche dal fumo delle barricate, ed è questo l’unico debito che deve rispettare se vuole avere qualche possibilità di successo.
Ora, dopo la rottura della trattativa con la Troika e l’indizione del referendum sui termini del cosiddetto “accordo” (leggi diktat), alcuni risultati ed elementi di riflessione sono già evidenti, comunque vada a finire. Il primo è che c’è un sicuro sconfitto: è l’europeismo di sinistra, di chi diceva “una cattiva Unione Europea è meglio di nessuna Unione Europea”, di chi si è fatto intrappolare e ha riprodotto a mo’ di scomunica l’alternativa tra UE e ritorno allo Stato-nazione. Una parte dei movimenti è stata influenzata da questo ordine del discorso, l’esperienza di Blockupy per esempio ne è interna. Oggi la signora Merkel, dalle redini del comando, strepita: “se fallisce l’euro fallisce l’Unione Europea”. Cosa hanno da dire in proposito gli europeisti di sinistra? La verità è che si può cavillare finché si vuole sulla differenza tra Europa e Unione Europea, e tra queste e l’austerity. Per chi guarda a una simile questione filosofica senza i soldi per arrivare alla fine del mese, la realtà è però molto più semplice: oggi Europa significa Unione Europea, e Unione Europea significa austerity. Dunque, non si può lottare contro l’austerity se non si lotta contro questa Europa.
Per lottare contro questa Europa, al contrario però di quello che ne pensano i nazionalisti di destra e di sinistra, bisogna costruire lotte sul piano europeo e internazionale, da Atene agli scogli di Ventimiglia. Dunque, se si vuole combattere in modo efficace e massificato al contempo contro l’austerity e contro i fascismi striscianti, questa è l’unica strada disponibile: partire dal rifiuto di questa Europa per dargli una direzione radicalmente opposta ai Salvini e alle Le Pen (perfino Brunetta adesso si scopre strumentale simpatizzante del referendum greco, a dimostrazione del consenso popolare per la rottura con la UE e della capacità che ha avuto di costringere i nemici a inseguirla su un terreno a loro avverso).
Il secondo elemento è che le istituzioni europee e internazionali sono costrette a gettare la maschera: da oggi in avanti non possono più utilizzare nemmeno la parvenza della democrazia. La democrazia muore all’ombra del Partenone, dove era nata alcuni millenni fa. La sua storia era iniziata segnata dalla schiavitù, finisce nello stesso modo.
Però l’oppressione non è un destino, si può rompere e rovesciare, questo è il terzo elemento. L’hanno fatto Tsipras e Syriza rompendo la mistificazione della trattativa e convocando il referendum. L’hanno fatto infischiandosene della minaccia della Troika e della chiusura delle banche. L’hanno fatto rendendo in questi giorni gratuiti i trasporti, uno dei terreni simbolicamente e concretamente importanti delle lotte degli ultimi anni, pensiamo solo alle insorgenze metropolitane in Brasile del 2013. Si chiudono borse e banche, si apre – certo in modo ancora embrionale o poco più che simbolico – la possibilità della riappropriazione della ricchezza accumulata (o almeno un accenno).
L’hanno fatto in modo probabilmente tardivo, perdendo a lungo tempo in una finta trattativa che non aveva altro scopo se non quello di rafforzare la posizione della dittatura finanziaria, che tende a far passare come dato tecnico e oggettivo ciò che invece appartiene al campo di forze e decisione della politica. Ora, nel momento della rottura, la politica torna a essere strumento di lotta contro la tecnica. In ogni caso, il dato è che Syriza – presto o tardi, per volontà o per costrizione – è riuscita a rovesciare quello che i tecnocrati di Bruxelles presentavano come un destino oggettivo. Lo ha fatto semplicemente mettendosi al servizio dei movimenti e delle lotte: non ponendosi cioè sul piano della falsa trattativa, che fa apparire come dialogo ciò che è un diktat, ma rompendola. Raccogliendo quello che è il grande portato dell’insorgenza in Grecia degli ultimi anni: il rifiuto. Ecco perché il no, l’“oxi”, diventano oggi parola d’ordine unificante: perché quel no è in grado di parlare alla composizione sociale colpita dalla crisi molto più e molto meglio di qualsiasi proposta alternativa, che ancora una volta cadrebbe nella trappola del tecnicismo finanziario e mercantile. Perché quel no non accetta il tavolo, ma lo ribalta. Perché quel no è il lessico dei movimenti contro l’austerity: no, noi la crisi non vogliamo continuare a pagarla. Quel no, ben al di là di come andrà il referendum, può allora diventare uno spazio di possibilità, se quel no sapremo generalizzarlo e farne programma di lotta. Con buona pace dei postmoderni, non c’è nessun per che non sia innanzitutto un contro, nessuna possibilità di costruire nuove forme di amicizia che non sia in primo luogo l’individuazione di un nemico.
Syriza resisterà oppure cederà? Non è questo il nostro problema, perché noi non siamo né vogliamo essere tifosi o spettatori di questa partita. Il nostro problema è come noi utilizziamo questo spazio che si è aperto. Syriza – ripetiamo, cambia poco se vi è stata costretta o se lo ha scelto – ha portato all’estremo punto di tensione, fino alla rottura, le possibilità di un riformismo di sinistra o della rappresentanza, ovvero ciò che la stessa Syriza incarna, disvelandone il loro esaurimento. Ora la parola ripassa alle lotte. In questo senso il problema non è discutere se il futuro greco sia avanti con l’euro o indietro con la dracma: quello che noi dobbiamo pensare è come combattere entrambe le opzioni, per determinare l’inizio di una nuova storia.
Una volta si diceva: la catena si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia è più forte. Indubbiamente la Grecia in questi anni è stata una punta avanzata del conflitto sociale: chi diceva che quel livello di lotta non aveva raggiunto alcun risultato, ora dovrebbe ricredersi. Nel bene e nel male, infatti, i risultati non si misurano necessariamente nell’immediato. Oggi la Grecia può essere l’anello da forzare per cominciare a mettere in crisi l’intera catena del comando. Il poeta diceva: “là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva”. Le lotte, quando sono radicali, agiscono sempre questo piano di rottura: collocati sul bordo del burrone, iniziamo allora a costruire le linee della trasformazione possibile. Lasciamo a tutti gli altri, tecnocrati immaginari e prudenti gestori dell’esistente, il triste spettacolo del già noto.
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