Non-voto, territori, transizioni istituzionali
Negli ultimi vent’anni è scesa mediamente di venti punti percentuali la partecipazione elettorale. Un dato plastico che parla molto, e spiega in larga misura l’ultimo voto amministrativo, quelli precedenti, e probabilmente quelli futuri.
Sul territorio infatti sono rimaste ormai solo cordate, clientele e soggetti in grado di incanalare voti che si contendono la direzione della macchina amministrativa trainando alle urne le fette di popolazione in qualche misura legate per interesse a questi reclutatori di voti.
Questa dimensione di funzionamento delle dimensioni istituzionali esiste sin dalla costituzione dello Stato liberale unitario di un secolo e mezzo fa, e affonda le sue radici in processi anche precedenti. Nella parentesi, nell’eccezione storica del secondo dopoguerra (boom economico, welfare state, spinta dei movimenti comunisti, nuovi comportamenti soggettivi di classe ecc…), la partecipazione massiccia al voto nelle democrazie europee (negli Usa è sempre stata tutta un’altra storia) era anche dettata da uno schema internazionale e di costruzione di senso al protagonismo politico estremamente superiore all’oggi, ma soprattutto il voto era indirizzato da una contesa ideologica chiara tra strutture partitiche di massa. L’evaporazione dei partiti di massa e della contrapposizione ideologica sul mercato elettorale, unita alla progressiva individualizzazione e anonimizzazione sociale, portano oggi sempre più in basso il senso di una partecipazione al voto.
I cartelli elettorali di centrosinistra, centrodestra o pentastellati (con questi ultimi ovviamente perdenti dove non si giocano una partita di orizzonte ampio) sono dunque mobilitati sul chi potrà distribuire più prebende, e ogni elezione può giocarsi sul filo dell’incertezza. Non c’è infatti ragione, per sempre più persone, di giocare alla competizione tra clientele, soprattutto laddove è ormai percezione diffusa che i luoghi di effettiva decisione politica sono sempre più distanti dall’attuale configurazione istituzionale. Non solo nell’Unione Europea, ma in tutti quegli enti che producono diritto e decisione su scala internazionale, a cui si lega il peso sempre maggiore di enti privati nel dettare lo sviluppo dei territori.
L’ultima spallata alle appartenenze politiche l’ha data Matteo Renzi, che però nel rottamare la Ditta ha finito anche con l’incrinare uno dei pochi strumenti di governabilità rimasti in Italia. Ma la partita di Renzi si era in fondo conclusa col 4 dicembre. Non a caso in quel contesto le percentuali di voto e la sua geografia socio-territoriale sono state anomale. Lì c’era una partita vera da giocare. E lì stava l’ipotesi reale di un nuovo corso, infrantasi su quel No.
Pisapia vorrebbe fare il nuovo Sanders/Corbyn, Salvini il nuovo Trump, Renzi rinnovarsi come Macron, Berlusconi e Prodi continuano a provare a fare i dominus di questo paesi per vecchi, Grillo&Casaleggio gli imprenditori politici 2.0 a là Silicon Valley… Ma tutta questa esterofilia non servirà probabilmente a molto. Le cordate politiche si affannano sull’accedere o mantenere il possesso di risorse sempre più scarse, all’interno di macchine istituzionali sempre meno performative.
Alle ultime elezioni (2013) la situazione di “ingovernabilità” era lo specchio del tempo della crisi. Lo scenario di fondo non è mutato nonostante qualche faccia nuova sui cartelloni elettorali pubblicitari. Tra apatia e “protesta”, tra disillusione e una distanza antropologica dalle istituzioni ormai acquisita, lo iato tra istituzioni e popolazioni rimane immutato e destinato a crescere. Come raccogliere questo sentimento verso traiettorie antagoniste rimane la domanda nella quale, territorio per territorio, è sempre più urgente sperimentare possibili risposte.
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