Tutti pazzi per il clima?
Note sparse tra il 15 e il 23 marzo
Da qualche tempo si stanno moltiplicando appuntamenti per protestare contro le catastrofiche condizioni climatiche che le pratiche degli umani stanno lasciando in eredità alle nuove generazioni. Gruppi di giovanissimi hanno iniziato a ritrovarsi ogni venerdì pomeriggio in molte città del nostro paese e del mondo sotto la sigla Fridays4Future per sensibilizzare il mondo degli adulti e la politica istituzionale contro un futuro già scritto. Queste presenze ci impongono di fare i conti con l’emergenza di una nuova composizione politica, propria dell’epoca che stiamo vivendo. Come tutti i fenomeni sociali imprevisti, essi contengono forti dosi di ambiguità ma siamo pronti a scommettere che non tarderanno a scontrarsi con l’impossibilità sistemica di fornire risposte adeguate alla loro domanda di riforme. Da questi aggregati sorgeranno forse le nuove leve di un ceto politico di riformisti fuori tempo massimo, i più scafati emergeranno contro gli altri come nuovi imprenditori del capitalismo verde ma i più, ci sentiamo di scommettere, batteranno la testa contro i limiti materiali, politico-economici-ecologici, che questa società oppone a quell’effettivo cambio di paradigma di cui tutti e tutte avvertiamo il bisogno. Non è ancora chiaro cosa si nasconda dietro le parole indignate di Greta (1) ma il tono e l’intensità ci dicono qualcosa dell’aria che tira.
Il tempo che resta
Il cambiamento climatico è oggi l’esempio più macroscopico delle contraddizioni che attraversano il modo di produzione capitalistico. A questo livello, in senso letterale, la disconnessione tra le necessità riproduttive del capitale e quelle della/e specie sono evidenti. Se la crisi emersa nel 2008 aveva già mostrato l’incapacità delle istituzioni capitalistiche sovra-nazionali di regolare gli aspetti più macroscopici della deregulation finanziaria – approntando rimedi che approfondivano le cause stesse della crisi, semplicemente posticipando il tutto alla prossima grande bolla (salvataggi statali delle banche, immissione massiccia di liquidità, mancata regolamentazione dello shadow banking e dell’off trade…ecc) – l’insipienza con cui gli stati nazionali si stanno rapportando al climate change è la rappresentazione più lampante dell’atteggiamento dello struzzo, per cui le dimensioni globali, epocali, sistemiche, finanche geologiche della catastrofe in corso sono “razionalizzate” attraverso rimedi di piccola scala e una grande rimozione collettiva.
Per cogliere la (s)misura di quello che è in gioco, basterebbe considerare l’accelerazione con cui le previsioni sul tempo che resta vanno accorciandosi ogni volta che viene pubblicato un nuovo bollettino medico della Terra da parte degli scienziati. L’insostenibilità che fino a poco tempo fa veniva posta sul finire del secolo in corso, nel giro di pochi lustri è stata anticipata alla metà dello stesso, per arrivare infine all’ultimo allarme in cui ci viene comunicato che gli anni che ci restano per agire, mettere le pezze e scongiurare qualcosa di simile all’apocalisse sono dodici. Dodici! Se facciamo un piccolissimo esercizio di concatenazione logica e aggiungiamo a questo linea del tempo che si accorcia altri due variabili – l’aumento esponenziale della popolazione umana con la sua relativa pressione ecologica e l’alternarsi di politiche statali oscillanti tra temporeggiamento e negazionismo esplicito – ci rendiamo conto della pressoché totale irraggiungibilità di un obiettivo che gli scienziati indicano come minimo, senza la certezza che esso possa bastare a contenere effetti cumulativi o impennate improvvise. Aggiungiamo a tutto questo un altro aspetto da tenere in considerazione: il cambiamento climatico si innesta su una proliferazione di altre crisi ecologiche di differente ordine di grandezza che tutte insieme però risuonano le une sulle altre determinando un’unica grande crisi ecologica di sostenibilità della biosfera che andrebbe identificata come crisi storica di una civiltà (quella capitalistica). Il legame tra surriscaldamento dell’atmosfera – inquinamento delle acque – estinzione di numerose specie viventi (sesta estinzione di massa) e la conseguente distruzione della catena alimentare, evidenza la dimensione sistemico-biologica con cui bisognerebbe guardare alla catastrofe in corso, con la consapevolezza che ogni aspetto pur minore di queste altrettante crisi può intervenire in ogni momento a peggiorare il corso già negativo degli eventi.
La composizione di classe ambientalista: un blocco sociale che manca
Gli studiosi e gli attivisti più accorti segnalano da qualche tempo che l’affermazione di una nuova destra globale sta oggi saldando un blocco sociale di vaste proporzioni capace di integrare negazionismo climatico ed egoismo sociale con politiche di esclusione ordinate sulla linea della razza e del genere. Il muro che Trump sta costruendo alla frontiera col Messico per arginare los migrantes fa tutt’uno con la nuova politica energetica di assalto al petrolio dell’Artico, trivellamenti, fracking e totale autonomia energetica. Analogamente, sull’altro emisfero, Bolsonaro lancia un nuovo attacco deforestante al polmone verde del pianeta, rintuzzando la militarizzazione già spinta di un paese in cui le gerarchie di classe sono da sempre garantite dal mitra spianato. Dietro la facciata negazionista – ideologia effettiva in cui si mischiano credenza ingenua, autoinganno e menzogna esplicita finalizzata al comando – il capitalismo estrattivista conosce fin troppo bene la sequenza politico-ambientale del suo modo di procedere: espropriazione di terre comuni → estrazione sfrenata di materia prime → distruzione dell’habitat umano (“terre morte”) → migrazioni di massa → militarizzazione dei confini e inclusione selettiva. Ordisce quindi un modello di governance globale che sulla falsariga del vecchio ritornello delle epoche di decadenza – “dopo di noi, il disastro” – innalza muri, filo spinati e guardie armate per tenere fuori dai perimetri di sicurezza l’umanità in eccesso da esso prodotta; fa anzi di più, mettendo costantemente mano ai disastri che produce: apre nuove branchie d’impresa che fanno del salvataggio in extremis e della creazione di safe zone le merci pregiate per la nuova élite globale. Tra profittatori e vittime consapevoli il capitalismo estrattivo riesce comunque a parlare a un blocco sociale composito e interclassista, rinverdendo l’American dream basato su un’idea di frontiera infinita, diritto alla felicità, super consumi, libertà individuale difesa a mano armata e sospetto per ogni forma di collettivismo.
Il movimento ambientalista, invece, che basi sociali ha?
Per rispondere a questa domanda ci riprendiamo un testo degli anni ’80 del collettivo statunitense Midnight Notes, tra i più originali e dimenticati di quel decennio.
“il movimento anti-nucleare degli anni ’70 – effettiva radice politica del movimento ecologista contemporaneo – aveva una composizione di classe limitata. Esso si basava sulla popolazione rurale che viveva nei dintorni delle centrali nucleari e su “un fattore aggiunto”: una forza lavoro intellettuale ricollocatasi nelle aree rurali […]. Suggerimmo allora che se il movimento anti-nucleare non fosse andato oltre la sua limitata composizione di classe e accolto il proletariato urbano e industriale all’interno del movimento, l’industria nucleare non sarebbe stata sconfitta” (2).
Il problema è qui ben posto da un punto di vista di classe o, se si preferisce, anticapitalista: entro i limiti di questa società, ogni minimo aggiustamento “verde” sarà scaricato su un proletariato, tanto vasto quanto stratificato, che non sarà in grado di stare al passo degli aggiornamenti che il mercato dell’innovazione tecnologica green-washed imporrà. Che si tratti di un Euro 6, o meglio ancora di un motore ibrido o elettrico, piuttosto che di aree interdette agli inquinatori, questi ultimi occuperanno sempre i gradini più bassi della scala sociale. Dal punto di vista del Capitale ogni limite che gli si pone innanzi – lotte, esaurimento delle materie prime, obsolescenza del macchinario – dev’essere superato attraverso una ricombinazione dei fattori produttivi: energia, lavoro, riproduzione, macchine. Tra questi, l’energia e il macchinario rappresentano le armi più affidabili nelle mani dei capitalisti perché anche se sono anch’esse prodotte dal e (almeno fino ad oggi) necessitano del Lavoro per poter funzionare, proprio in quanto prodotto particolare di una vasta cooperazione sociale sono nelle mani di chi questa cooperazione l’organizza e la dirige. Puntare su una nuova forma di energia e sviluppare un nuovo macchinario sono risposte storiche che il capitale contrappone alle diverse crisi che deve affrontare, scaricando i costi di questa nuova ri-organizzazione sulla sua contro-parte storica: il proletariato.
Il nucleare, per fare un esempio calzante, ha sempre rappresentato per il capitale un rifugio politico prima ancora che economico, perché la mega-macchina sociale che deve essere messa in piedi per sorreggerlo presuppone una finalizzazione ben precisa della fiscalità generale, alti livelli di segretezza che sconfinano nel militare, l’allestimento di dispositivi di sicurezza che predispongono una delega in bianco a forze militari e di polizia. Dove si pensa di risparmiare sull’energia, si consegna invece tutta una società a quella che un tempo, non a caso, veniva chiamata “energia padrona”. Questo tipo di analisi deve essere condotto su ogni forma di energia. Il petrolio, a sua volta, si fonda su una politica di guerra permanente necessaria per ridefinire, a seconda degli equilibri geopolitici, i percorsi del suo trasporto, i costi della sua erogazione e disciplinare gli addetti alla sua lavorazione. Se è certo che la transizione a forme più pulite e sostenibili di energia porta con sé anche un ridimensionamento di questi poteri, oltre alla fondamentale diminuzione del loro impatto ambientale, essa servirà anche sempre a ridefinire gerarchie, consolidare nuove ricchezze e disporre una nuova messa al lavoro di tutta la società.
Per questo il movimento dei Gilet Gialli è cosi importante e rivelatore. Perché a partire dal rifiuto di un eco-tassa imposta dall’alto ha saputo prima rispondere che “non tocca a noi pagare i costi della transizione energetica” per poi attaccare gli altri nodi della riproduzione sociale.
Lo sciopero della Natura (combinata col lavoro) e i limiti del Capitale
L’Ecologia Politica ha avuto il merito di rimettere al centro il rapporto di continuo scambio e reciproca determinazione tra la specie umana e i diversi ambienti cui si è sviluppata, inserendolo in una lunga prospettiva storica. Scopriamo così che la modificazione dell’habitat e del clima non sono un fatto assolutamente nuovo nella storia del capitalismo ma ne accompagnano la nascita nel lungo XVI secolo, quando interi eco-sistemi caraibici e vaste zone interne dell’America Latina furono distrutti e ri-configurati per dar vita alla prima grande fabbrica moderna: la piantagione a monocultura della canna da zucchero. Questa fu resa possibile dalla combinazione di forza, capitali europei e l’assoggettamento schiavistico di milioni di africani per diverse generazioni. James W. Moore ha reso bene questa combinatoria sociale storica e ambientale coi concetti di “Natura, Lavoro, Denaro a buon mercato (3)”. La Natura a buon mercato ha prodotto Cibo a buon mercato (rivoluzioni agricole) mentre dietro il Lavoro a buon mercato c’è l’Assistenza a buon mercato (il lavoro di riproduzione che il Capitalismo non ha mai pagato); le Vite a buon mercato (gli umani ridotti a cosa) stanno invece a metà tra Lavoro e Natura.
Queste considerazioni erano già presenti nella formulazione di Marx, nel famoso XXIV capitolo “sull’accumulazione originaria”, troppo spesso dimenticato dal marxismo degli epigoni. Se la verità del rapporto di capitale risiede nell’estrazione di plus-valore (da plus-lavoro non pagato), condizione storica di partenza sta nell’immenso – violento – accumulo di materie prime e lavoro non pagato. Contributi successivi hanno poi evidenziato come questa accumulazione era nient’affatto originaria ma costantemente riprodotta: il Capitalismo non si è limitato ad una sola grande accumulazione originaria, ma ha costantemente riprodotto le condizioni di quell’accumulazione, così come si è costantemente servito di differenti regimi politici di regolamentazione del lavoro (schiavitù, servaggio, colonialismo..ecc), nella strutturale combinazione di sviluppo e sotto-sviluppo.
Un altro concetto fondamentale messo in campo da Moore e altri ecologisti politici è quello di frontiera. Che cosa è dunque questa frontiera? Come il nome stesso indica essa definisce un limite, un confine, una linea di demarcazione tra un dentro e un fuori. Quel dentro e quel fuori sono rispettivamente la Società e la Natura, opposizione su cui si è fondata la modernità capitalista. Si tratta però di un confine mobile, che si sposta sempre in avanti, nell’interminato processo di appropriazione, recinzione e sfruttamento intensivo della Natura. Il concetto di frontiera disloca sul terreno dell’opposizione Società/Natura il concetto marxiano di sussunzione: quello che in Marx era l’inclusione per via di subordinazione del lavoro al capitale, nell’Ecologia Politica è la subordinazione della Natura alla Società. Lo scarto rispetto al marxismo volgare – non a Marx, ecologista ante litteram che parlava di “ricambio organico” tra umani e natura e denunciava la rottura violenta di questo ricambio operata dal capitalismo – è nel non pensare la Natura come materia inerte, già data, gratuita (svalorizzata) e soprattutto inesauribile. (Pensare alla Natura come a una cosa di già bella e pronta, disponibile per noi, significa trattarla come esternità cosificata. Come scrive ancora Moore “La natura non poteva essere resa “a buon mercato” fino a che essa non fosse stata resa esterna (4)”. Non è allora un caso che nel regno della Natura la modernità occidentale e capitalistica abbia via via incluso, assegnandovi differenti posizioni gerarchiche a seconda delle congiunture e dei regimi operanti, le donne e gli schiavi).
Ora, “il problema essenziale del capitalismo è che la domanda di nature a buon mercato da parte del capitale cresce più velocemente della sua stessa capacità di assicurarle (5)”. Questo è lo scenario attuale. La frontiera ha sempre rappresentato uno spazio deterritorializzato cui il capitale poteva attingere quasi gratuitamente nel suo continuo processo di appropriazione e messa a valore. Ma una volta giunti alla fine del mondo, stravolti gli habitat ed esaurite le risorse resta solo l’opzione intensiva all’interno di spazi già appropriati. Questo implica l’approfondirsi di un capitalismo estrattivo hard (trivellazioni estreme, fracking, incuranza per la distruzione circostante e le emissioni di CO2) che produce “terre morte” (6). L’ecologia-mondo capitalistica (non ce ne sono altre al momento) sembrerebbe insomma aver toccato il proprio limite. Dopo il gesto operaio dell’incrociare le braccia, la rottura della subordinazione coloniale messa in atto dai movimenti anti-coloniali e il rifiuto delle donne nel fornire pasti e cure gratuiti (sciopero delle cucine e delle camere da letto) anche la natura inizia a mostrare una sua propria rigidità. I passaggi appena elencati debbono essere letti come l’assommarsi di strozzature in un collo di bottiglia. La logica del Capitale pretende spazi lisci e una fluida circolazione senza intoppi. Così come ha prodotto storicamente un lavoro astratto, ha prodotto anche una natura astratta. E così come il lavoro vivo ha imparato a scioperare contro la sua riduzione a lavoro astratto, nella prospettiva dell’Ecologia Politica dobbiamo imparare a vedere le rigidità/limiti che i le diverse nature situate impongono al Capitale come uno sciopero della natura. Ben inteso, non una natura antropizzata, con la faccia d’uomo, come una certa narrazione alla Walt Disney ha propinato alle nostre generazioni, ma come un ambiente che si co-riproduce col lavoro vivo.
Se si eccettua la dimensione macro del surriscaldamento globale, l’altro grande limite oggi individuato dall’ecologia politica risiederebbe nell’incapacità del sistema-ecologia-mondo capitalista di fornire cibo a buon mercato con cui garantire la riproduzione della forza-lavoro globale. Come abbiamo già visto è il cibo a buon mercato che ha permesso e continua tuttora a permettere la disponibilità di un(a merce forza-)lavoro a buon mercato. L’energia a buon mercato e il terzo fattore che sta a fianco (o a monte) del cibo e del lavoro. La sua disponibilità a buon mercato è garantita oggi dalle politiche economiche ed energetiche del capitalismo estrattivo o fossile (7) (che hanno dietro di sé, come abbiamo visto, le guerre imposte alle popolazioni del medio-oriente e il rinnovato assalto della destra clima-negazionista alle ultime barriere biologiche del pianeta). Ognuna di queste pratiche ha un’impronta ecologica molto alta che contribuisce in maniera diretta all’aumento delle emissioni di CO2, metano e gas naturale. Su un piano più profondo, tutte queste forniture di energia a buon mercato hanno oggi un impatto diretto sulla capacità capitalistica di produrre cibo a buon mercato. Viste da questa prospettiva crisi e guerre degli ultimi anni hanno radici ben più inquietanti. Gli effetti della crisi del 2008 hanno determinato un’impennata dei prezzi delle materie prime alimentari, il cui ammontare veniva deciso dalla logica perversa dei futures alimentari contrattati nelle borse londinesi/occidentali. Storici e giornalisti accorti riconoscono cause ecologiche nella genealogia della guerra civile siriana: imposizione statale delle monoculture per adeguarsi al mercato mondiale, siccità e distruzione dei raccolti con conseguenti inurbamenti di massa di un nuovo proletariato che andava a riempire le fila di reclutamento delle diverse aziende jihadiste (questo scenario si riscontra anche in molti assemblaggi ecologico-sociali dell’Africa sub-sahariana).
Non ci salveranno le macchine (perché non dobbiamo desiderare un’ulteriore accelerazione)
Il negazionismo circa la catastrofe in atto ha anche la sua sponda sinistra. L’incapacità di cogliere le dimensione epocali e sistemiche in cui siamo costretti conferma la sinistra nella sua consolidata tradizione sviluppista e tecno-entusiasta secondo la quale per ogni problema c’è una soluzione tecnica disponibile o in corso di scoperta. Questa convinzione, che assume talvolta i tratti di un’ortodossia che non si può mettere in discussione in cui la Scienza prende il posto della Religione, è uno dei sensi comuni più difficili da scalfire, profondamente inculcato nei modi di sentire e pensare degli umani riconfigurati dalla modernità (e post-modernità) capitalista. Essa si fonda su due rimozioni, una storica e l’altra scientifica.
Dal punto di vista storico, ciò che questa narrazione cancella è il corpo a corpo continuo che ha opposto il lavoro vivo alla sua sussunzione nel capitale morto (le macchine), la dimensione costituente che esso ha sempre rappresentato in questa lotta. Prevale una storia lineare in cui l’attuale grado di sviluppo sarebbe il risultato dell’ingegno e di una ricerca che non poteva che condurci a questo punto. Si dimentica insomma che non solo l’innovazione tecnologica è primariamente una ri-organizzazione dei fattori (natura e lavoro) per facilitarne il controllo ed aumentarne la produttività, ma che gli stessi aspetti benefici redistributivi sono stati ottenuti al prezzo di dure lotte, oltreché diventare nuove merci che fanno accumulare nuovo capitale al padrone, riproducendo e allargando la sua base sociale.
L’aspetto più propriamente scientifico riguarda invece l’ignoranza diffusa sui processi di trasformazione che permettono a un bene o un servizio di giungere fino a noi nella forma con cui li conosciamo/consumiamo. Se lo scienziato avverte che “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”, questo avviene al prezzo di un continuo consumo: di ambienti, risorse e fatica umana. Prevale invece l’idea che le cose che consumiamo, quand’anche le si riconosce essere frutto del lavoro, non abbiano effetti. È questa una credenza propriamente religiosa, che riconosce alla scienza e alla sua applicazione di massa un carattere miracolistico. Spariscono così gli effetti e i costi del ciclo complessivo delle merci. Alcuni esempi: l’Information Technology (IT) è oggi responsabile del 2% delle emissioni globali; il ciclo del digitale, col suo consumismo indotto che impone di cambiare dispositivi a ritmi sempre più serrati tramite obsolescenza programmata, si basa sull’imposizione di uno stato di guerra permanente ed un regime schiavistico alla popolazione del Congo e di altri paesi dell’ex Terzo Mondo.
Si dirà: che c’è di nuovo? Il capitalismo ha da sempre prosperato su rapine e massacri ma questo non ha mai impedito di pretendere i frutti per tutti del punto più alto del suo sviluppo. Vero! Ma oggi questa rivendicazione non può non fare i conti con la finitudine delle risorse e la capacità di auto-rigenerazione in un pianeta surriscaldato. Non si tratta qui di proporre fughe primitivistiche né soluzioni luddiste – per quanto sarebbe importante riconoscere non solo il fondamentale apporto che il luddismo ha apportato alle lotte originarie della classe operaia, ma anche il suo continuo riprodursi, come sabotaggio, in innumerevoli fasi e contesti dei cicli di lotta – si tratta piuttosto di comprendere che la Tecnoscienza non è in sé la soluzione ma deve essere questionata politicamente, non solo nei suoi effetti e sviluppi ma già nella sua genesi, dove in obbedienza a specifici interessi di parte si sviluppano usi e funzioni peculiari.
Se soluzione dev’esserci a quella che è senza dubbio la più grande sfida che gli umani come specie devono affrontare – specie nient’affatto unita ma divisa al suo interno, anzi contrapposta – la risposta a questa sfida, che non ha paragoni storici precedenti, dev’essere costruita nella radicale riorganizzazione dei rapporti sociali e nel ripensamento, a livello di intera civiltà, del rapporto organico tra la specie e l’ambiente che la circonda, che occorre iniziare a pensare come una nostra estensione metabolica e non come una mera esteriorità da spremere e utilizzare come discarica. Un ambiente/natura che co-produciamo e che contribuisce a riprodurci. È evidente che questi cambiamenti presuppongono un superamento dell’ordine politico, sociale, economico, tecnico ed ecologico chiamato capitalismo. Se questo superamento non è oggi all’ordine del giorno, si tratta però di lottare in quella direzione, avendo presente la posta in gioco ed evitando di illudersi con nuove chimere.
#siamoancoraintempo (per una politica della congiuntura)
Siamo fottuti?
Nessuna affermazione che pretenda a un minimo di onestà intellettuale può riscaldarsi al fuoco di improbabili consolazioni. Difficile rispondere altrimenti che un rassegnato “sì”. Per quel poco che accettiamo di essere realisti – sotto questo cielo capitalista – non possiamo non essere irrimediabilmente pessimisti, catastrofisti per giunta. Allo stesso tempo va evitata l’accettazione passiva e nichilista di una partita già persa per cui non resta che navigare su una nave alla deriva, continuando a ballare e suonare sul Titanic che affonda. Il contesto con cui si misura l’agire politico sul clima è segnato, per un verso, dalla consapevolezza lucida che “Non c’è più tempo”, per riprendere il titolo del bel libro di Luca Mercalli; per l’altro, dallo slogan che chiama alla manifestazione del 23 marzo e ci ricorda che “siamo ancora in tempo”. Paradossalmente, è in questa fessura impossibile e segnata dall’urgenza che bisogna muoversi. Ed è proprio questo sentimento dell’urgenza a offrire un’occasione storica ai militanti anticapitalisti. Per dirla con Naomi Klein, autrice troppo spesso e a torto liquidata con sufficienza, “una crisi così grande e onnicomprensiva cambia tutto […] moltissime cose che ci sono state presentate come inevitabili, semplicemente non potranno continuare ad esistere. E moltissime cose che ci sono state presentate come impossibili, invece, dovranno iniziare ad accadere fin da ora” (8).
Joel Winwright e Geoff Mann, due geografi americani, in un interessante articolo del 2012 elencavano i cinque limiti politici con cui si trova costretto a confrontarsi l’agire politico rivoluzionario sul clima, abbozzando quella che potremmo definire una teoria politica della congiuntura:
1) Non ci sono basi legittime per dibattere del cambiamento climatico come tale. Il clima sta cambiando, e la modificazione antropogenica della composizione chimica dell’atmosfera ne è la causa principale.
2) L’umanità potrebbe o non potrebbe aver tempo per invertire il corso di questi cambiamenti, che comunque avranno conseguenze mortali e terribili – particolarmente per i relativamente deboli e i marginali (umani e non umani)
3) Le condizioni politico-ecologiche in cui le enormi decisioni sul cambiamento climatico stanno per essere (e verranno) prese sono fondamentalmente impregnate di paura e incertezza; non ci sono effettive decisioni sul clima, solo varie reazioni ad esso.
4) Le élite transnazionali che dominano gli stati-nazione del mondo capitalistico desiderano sicuramente moderare e adattarsi al cambiamento climatico – non fosse altro per stabilizzare le condizioni che producono i loro privilegi; e ancora, fino ad oggi, hanno totalmente fallito nel coordinare una risposta.
5) Alla luce della potenziale gravità del cambiamento climatico, le élite tenteranno di coordinare sempre più le loro reazioni, navigando su mari di incertezza e incredulità (9).
Nelle sue riflessioni in cerca di una “strategia rivoluzionaria in un mondo che si surriscalda (10)” lo storico del vapore e militante per il clima Andreas Malm invita a porsi nella prospettiva del Lenin del ’17 che denunciando la guerra imperialista, ne salutava l’implicita, possibile apertura della guerra civile. Elenca quindi una serie di misure rivoluzionarie da prendere (blocco di nuove centrali, elettricità prodotta da rinnovabili, trasporto pubblico ecc.) e striglia il purismo degli ambienti “rivoluzionari” euro-americani e la loro ossessione per l’orizzontalismo e la sola azione diretta, ricordando che in fondo “la questione del potere” resta quella centrale in ogni rivoluzione, per cui un certo tipo di rapporto dialettico con le istituzioni statali (fosse anche solo nei termini di pressione) come traduttori di istanze elaborate in basso sarà comunque necessario.
La pregnanza di queste riflessioni ha il solo difetto, ineliminabile muovendosi su quei livelli, di limitarsi a lontane astrazioni, tra il prescrittivo-normativo del cosa andrebbe fatto e le altezze del “politico”. Manca, in questi scritti di cui si percepisce la fattura accademica, la dimensione concreta e tutta contraddittoria dell’agire nei contesti, dove la razionalità dell’interesse collettivo si scontra con la miriade di interessi particolari e il peso che hanno le identità dei territori e dei soggetti, le tradizioni politiche di lungo corso e le forme di vita che prendono corpo nei conflitti in atto. Non è forse un caso che ad oggi le rappresentazioni più realistiche dello scenario di un mondo che si surriscalda sono quelle della science-fiction post-catastrofista, letteraria e cinematografica. Pensiamo a opere anche molto diverse come “Caos Usa” di Bruce Sterling o “La strada” di Cormac McCarthy, ai tanti film che da “2022: i sopravvissuti” alla saga di “Mad Max” immaginano cosa vuol dire vivere in un mondo sempre più sovrappopolato e in cui le risorse scarseggiano. Tra la saggistica non specialistica, l’autore che si è avvicinato di più alla descrizione del mondo che è già tra di noi è senza dubbio Mike Davis, con le sue “geografie della paura” fatte di fili spinati e gated communities, città radioattive e bidonvilles futuristiche. Al di là di un innegabile talento narrativo, il suo merito è sempre stato quello di andare a vedere come vivono – e si organizzano – le comunità attraversate dai disastri, tanto quelli naturali quanto quelli prodotti dagli umani (ma appunto, nell’era dei violenti cambiamenti climatici, la differenza si fa sempre più sottile).
Nella nostra storia recente non mancano gli esempi a cui guardare. Che si tratti degli sfollati dell’Aquila o dell’Emilia rinchiusi in campi comandati dalla Protezione Civile o delle esperienze virtuose come le Brigate di Solidarietà Attiva, quote importanti di popolazione italiana hanno già fatto esperienza di cosa significhi vivere in un mondo post-disastro. Analogamente, le lotte a difesa del territorio devono essere interpretate come antidoti alle catastrofi a venire o, come nella maggioranza dei casi, resistenze a distruzioni già in atto. La volontà di convocare una manifestazione nazionale per dar voce alle innumerevoli e disperse battaglie territoriali, collegando queste con la partita più importante e strategica del cambiamento climatico, è una scelta politica preziosa e lungimirante. Non sarà certo la risposta all’odierno che fare ma è un inizio, e come ogni inizio porta in grembo mondi nuovi
1) Tralasciando i rancori degli haters e le gelosie di Rita Pavone, l’operazione di marketing costruita sul fenomeno Greta Thunberg pare evidente (il che nulla toglie della dimensione comunque significativa e aperta a ulteriore sviluppi che il movimento F4F esprime). Rimandiamo qui a due delle ricostruzioni più esaurienti, purtroppo non in italiano. Isabelle Attard, “Le capitalisme vert utilise Greta Thunberg” (https://reporterre.net/Le-capitalisme-vert-utilise-Greta-Thunberg?fbclid=IwAR3Wwsh-qR6hBalUuyQ7OORZ4a3MlJT_dYkceE2FOR84qN-OXmF1T5qQ9lI). “The Manufacturing of Greta Thunberg – for Consent: The Political Economy of the Non-Profit Industrial Complex” [in 6 parti]. (http://www.theartofannihilation.com/the-manufacturing-of-greta-thunberg-for-consent-the-political-economy-of-the-non-profit-industrial-complex/)
2) The New Enclosures, in “Midnight Notes” n. 10, 1990.
3) Il testo più accessibile su questi temi è quello scritto a quattro mani con R. Patel-J. Moore, Storia del mondo a buon mercato, Feltrinelli, 2018.
4) James W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Ombre Corte, p. 94.
5) Ibidem, p. 95.
6) Il concetto di “terre morte” e quello conseguente di “acque morte” è descritto da Saskia Sassen in Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, 2015.
7) La categoria di “capitalismo fossile” e avanzata da Andreas Malm, Fossil Capital, Verso, 2018.
8) Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, 2015, p.46.
9) Joel Winwright-Geoff Mann, Climate Leviathan, in “Antipode”, vol. 45, n. 1, 2012.
10) Andreas Malm, Revolutionary Strategy in a Warming World. Lessons from the Russian to the Syrian Revolutions, in “Socialist Register” n. 53, “Rethinking Revolution”, Merlin Press and Monthly Review Press, 2016-2017. (https://climateandcapitalism.com/2018/03/17/malm-revolutionary-strategy/)
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