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La maestra incazzata e il ritorno del metodo “pecorella”

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Dopo la fatwa di Renzi è il momento del grande rito civile della lapidazione in prima pagina.

Correva l’anno 2012. L’autostrada A32 era bloccata dai notav, una risposta di rabbia e indignazione. Poche ore prima Luca Abba era stato inseguito dalle forze dell’ordine su un traliccio dell’alta tensione dove si era rifugiato per resistere all’inizio dei lavoratori preparatori della Torino-Lione. Si trova in fin di vita. La violenza dell’opera del tav è sotto gli occhi di tutti. Ed è sotto gli occhi di tutti che c’è qualcuno che non abbassa la testa. Bisogna correre ai ripari.

Durante il blocco un notav si avvicina a un carabiniere armato di tutto punto e gli dà del “pecorella”. È il servo belante di un’opera scellerata che ha già quasi fatto il suo primo morto. I giornali prendono questa scena, la diffondono ossessivamente. I politici di ogni schieramento condannano i notav, si suggeriscono accostamenti tra la resistenza del movimento e la guerra in Somalia, il ragazzo che ha apostrofato il carabiniere viene qualificato come “squadrista” dalle pagine de la Repubblica a quelle de Il Tempo. Marco, così si chiama, riceverà per mesi al suo domicilio lettere minatorie e minacce di morte da parte di appartenenti alla forze dell’ordine, gli verrà intentato un processo nel quale sarà condannato a quattro mesi di reclusione.

Il “metodo pecorella” ritorna in occasione della manifestazione antifascista di Torino di giovedì scorso. Negli ultimi mesi si sono susseguite violenze e aggressioni razziste, in TV non si fa che parlare di suprematismo bianco, un candidato della Lega nord ha da poco preso una macchina e iniziato a sparare sui “negri”. Ma c’è qualcuno che non ci sta. Un corteo antifascista che vuole protestare nei pressi del comizio elettorale di Casa pound. Viene caricato con idrante e manganelli. Una ragazza incazzata inveisce contro la polizia. Cosi succede, da sempre, quando degli uomini armati ti picchiano e usano le loro armi contro di te. Si scatena di nuovo il tiro al piccione dei detentori del monopolio della parola. Comodi, comodi nella loro impunità, prendono la mira e premono il grilletto. Matteo Renzi, seduto sulla poltrona di un talk show insulta la ragazza, (“che schifo”) dovrebbe essere licenziata. Perché la manifestante è anche una maestra e quindi dovrebbe farsi menare in silenzio, per non dare un brutto esempio ai ragazzi. “Cattiva maestra” la definisce sulla prima pagina del Corriere sor Gramellini, placido, bevendo il suo caffè. Nome, cognome, fotografia e codice fiscale vengono divulgati dai “professionisti dell’informazione”. Si prepara il dossier: dettagli, biografie pasticciate, allusioni, interviste, virgolettati anonimi. “Era a una manifestazione!” ti dirò di più “aveva anche una birra!”.

Una scena vergognosa, di un’ipocrisia patente e patetica. I cantori dell’impegno civile lapidano a mezzo stampa per fini elettorali un’insegnante precaria. Politici pluri-condannati si accarezzano il pelo sullo stomaco e indicano i target a giornalisti compiacenti, i sindacati di polizia che hanno applaudito gli assassini di Federico Aldrovandi emettono la sentenza. Non c’è bisogno di nessun processo. Lo spettacolo pretende un sacrifico, vuole del sangue e vuole vederlo con tutti i dettagli.

Così è il belpaese. Un ministro può dire che “Cucchi se l’è cercata”. Un senatore può dire che una ragazza molestata dalla polizia dice bugie. Mentre se una manifestante, che di mestiere fa l’insegnate, di fronte alle cariche dei poliziotti insulta gli stessi, va licenziata.

È il metodo pecorella, l’arma di distrazione di massa. Sull’inviolabilità del sacro corpo delle forze dell’ordine si costruisce l’ordine democratico. Quello che legittima i fascisti in nome della libertà di parola. Quello di una repubblica di poveretti, intrisi di vigliaccheria e perbenismo.

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