Tor Sapienza e dintorni
I recenti fatti di Tor Sapienza chiedono urgentemente una lettura attenta ai diversi piani che collassano all’interno di situazioni così contraddittorie.
A livello nazionale siamo senza dubbio uscendo da tre anni – dalla caduta del governo Berlusconi nel 2011 – assolutamente eccezionali in cui le spinte razziste e di guerra tra sfruttati erano catalizzate dal disprezzo per una classe dirigente marcia: la parabola elettorale del movimento cinque stelle copre a grandi linee questa dinamica. Il fenomeno Renzi ha frenato l’ondata anti-politica e la decomposizione avanzata del fu PDL creando quindi un vuoto d’aria che quasi meccanicamente apre spazi a una destra ancora frammentata ma in piena ricomposizione. Il vertiginoso crescere del partito di Salvini (cui ormai il contenitore Lega nord va più che stretto), i goffi tentativi di Fratelli d’Italia e l’ancora timido riaffacciarsi di Casa pound e Forza nuova dalle fogne nelle quali erano relegate questi ultimi mesi sono sicuramente sintomatici della fine di questo breve periodo della storia italiana in cui l’odio per la casta aveva cortocircuitato l’odio per l’immigrato.
Come forze antagoniste, pur tra mille sinceri tentativi e nella solitudine di una sinistra sindacale che comincia a risvegliarsi fuori tempo massimo, non siamo per ora oggettivamente riusciti a catalizzare quelle spinte verso ribaltamento radicale dell’esistente. E questo è un piano su cui senza dubbio bisognerà ritornare per riflettere su proposte, radicamenti e linguaggi.
A Tor Sapienza da diversi giorni alcuni abitanti scendono in piazza contro gli immigrati, contro i furti, contro il degrado della zona genericamente contro l’abbandono di un quartiere. Il bersaglio di questa rabbia è il locale centro d’accoglienza nato nel 2011. Ma i punti comuni di questa protesta variegata si fermano qui. Per questo appiattire ciò che sta succedendo a Tor Sapienza su una dinamica di “rigurgito fascista” o di “protesta genuina contro uno stato assente” è una sterile forzatura. Probabilmente si tratta dell’una e dell’altra cosa. C’è il comitato di zona che mischia mancanza di servizi e presenza dei migranti, il coatto che sa che si possono fare aggressioni vigliacche senza che partano denunce, le signore che hanno solo quell’occasione per scendere in piazza a parlare di cos’è il quartiere. Di fascisti provenienti da gruppi organizzati, per ora, a detta dei compagni presenti se ne sono visti pochi e comunque rimangono marginali rispetto alle dinamiche in atto. È questo “per ora” il fulcro della questione Tor Sapienza. Una lettura “complottista” e rassicurante che pretende che ciò che succede da quelle parti è orchestrato da gruppi organizzati di estrema destra, il puntare il dito su quella parte – non marginale – del quartiere e definirla come folle e razzista (in una parola, creare il mostro) apre praterie politiche ai gruppi fascisti che sul disagio delle periferie stanno investendo molto. Ciò non vuol dire non avere gli occhi ben aperti su chi sta soffiando sul fuoco e in quale direzione, su chi quel fuoco lo sta spegnendo e su chi cerca solo di nasconderlo. Ciò vuol dire darsi gli strumenti per alimentare il fuoco nella direzione giusta: quella delle responsabilità politiche del disagio quotidiano di chi si vive Roma, quella della riappropriazione dei territori, quella delle possibili rivendicazioni comuni sulle politiche migratorie[1]. Ciò vuol dire semplicemente darsi gli strumenti per essere all’altezza della situazione che ci si pone davanti.
Qualche schizzo di riflessione per spostare su un piano politico, l’unico che c’interessi, la guerra tra poveri proviamo ad avanzarlo. Per cominciare intendere l’antirazzismo non come una posizione morale astratta ma come unità pratica di tutti gli sfruttati. Il razzismo di Tor Sapienza non è quello della posizione ideologica contro l’invasione islamica, contro il velo, contro un’altra cultura. Sporcizia, violenza, degrado, “inciviltà” sono fatti veri o presunti ma in ogni caso indicano che è la qualità di vita del quartiere il piano politico su cui intervenire. Non cercare quindi di porsi come ammortizzatori sociali che mediano tra le varie spinte – e magari con le istituzioni – ma indicare i responsabili politici di quelle situazioni. Riconoscere che c’è una disproporzione nella distribuzione dei centri di accoglienza all’interno della capitale e che i governi del Nord Europa scaricano i costi sociali della gestione dei flussi migratori sui paesi del Sud. Che quei centri di accoglienza forzata non sono solo alcuni abitanti del quartiere a non volerli ma spesso gli stessi migranti, costretti ad una attesa di 36 mesi prima di ricevere una risposta alla loro domanda d’asilo senza la possibilità di lavorare, obbligati a restare in Italia quando la maggior parte vorrebbe raggiungere altri paesi europei meno duramente colpiti dalla crisi. Dire senza fronzoli che è vero che il problema è l’esistenza del centro stesso, ma che ce la si prende con le persone sbagliate.
Le barricate a Primavalle contro la svendita delle case popolari, in cui si sono ritrovati insieme inquilini e occupanti, autoctoni e nuovi arrivati, sono un’indicazione di come, dopo un primo momento di diffidenza, ritrovarsi sul terreno delle lotte dissolve le barriere artificialmente create dal terrorismo mediatico e da una gestione scellerata del territorio che crea profitti per pochi e miseria per moltissimi. I centri per rifugiati, con i loro spazi separati dal resto del quartiere contribuiscono a creare incomprensioni e reazioni vigliacche. Ben vengano le richieste al comune di maggiori servizi per le zone periferiche ma ciò che manca sono soprattutto i luoghi per rompere l’isolamento e capirsi tra chi condivide più di quanto crede.
Ultimi aggiornamenti
Ieri, i migranti presenti nel centro di Tor Sapienza sono stati trasferiti in diverse sedi della Capitale. Rimangono solamente i rifugiati dello Sprar sui quali ancora non è stata presa una decisione. Intanto, in una nota delle agenzie stampa si legge che oggi Borghezio visiterà Tor Sapienza e sarà presente alla fiaccolata organizzata da Casapound a Fidene.
[1] In questo senso articolare un discorso sullo scellerato accordo di Dublino – che forza i migranti a chiedere asilo nel paese d’arrivo e restarci fino alla fine della procedura – potrebbe essere una breccia interessante.
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