Sul primo maggio torinese
Ci siamo presi qualche ora in più prima di commentare questo primo maggio torinese che, con il suo codazzo di polemiche, ci sembra occultare qualche dato politico importante che evidenzia la giornata.
La cronaca è nota, le testimonianze, i video e le parole di chi era presente sta raccontando tutto meglio di noi. Fin dal mattino, ancor prima dell’inizio ufficiale del corteo, la polizia si è schierata per dividere igienicamente in due il corteo. Davanti partiti, liste “civiche”, i candidati alle regionali e un parterre sindacale ormai mummificato. Dietro uno spezzone ben composito, con giovani e giovanissimi, attivisti scesi dalla val Susa, un po’ di sindacalismo di base ma anche tanti cittadini “di sinistra” che negli anni hanno deciso di riporre le bandiere confederali ed unirsi a quella presenza magmatica che fa tanto paura dietro la marcia istituzionale. Marco Revelli ha parlato di volontà della polizia di evitare “il contagio” tra le due parti del corteo (non fateci dire anime perché una parte la sua l’ha già venduta al diavolo da un pezzo). L’espressione è azzeccata. Ogni anno che passa la parte sindacale si fa più stanca ed esanime mentre “quella dietro” s’ingrossa. Forse più che un contagio è un’emorragia. Tra davanti e dietro i linguaggi sono diversi, davanti si parla di futuro come eterna promessa di un miglioramento che non arriverà mai, dietro sibilano le parole di un passato che si pensava di spegnere sotto la patina della modernità. Di qui si parla di lavoratori, di là di lavoro. Di qui si parla di sfruttamento, di là di sviluppo. Di qui si parla di difesa del territorio, di là di nuove colate di cemento.
Mentre il corteo avanza prendono parole giovani, precari, studenti, volano insulti contro il Partito democratico che non vuole lasciare posto alla fiumana notav che ha fretta di arrivare a piazza san carlo. Una domanda che non può avere risposta viene gridata in faccia ai funzionari dem: ma cosa c’entra il PD col primo maggio? All’imbocco di via roma c’è una carica a freddo assolutamente ingiustificata e vigliacca perché il comizio confederale è ancora in corso e si vuole evitare che si sentano i fischi. A suggellare la giornata le parole del vice-presidente del PD torinese: “poi la polizia gli ha fatto assaggiare i manganelli… finalmente!”. Un tifo liberatorio e sincero (alla fine arrivano i nostri!) che ha destato scandalo tra le file democratiche ma che ben rappresenta lo stato della città. E allora cos’è questo schieramento che si è palesato al primo maggio? Il PD e la polizia certo. Binomio familiare e inscindibile. Ma quest’anno si è andati oltre. Sorvoliamo su madamine e rotarine accolte a braccia aperte dalle organizzazioni “dei lavoratori” in un primo maggio che ormai potrebbe direttamente svolgersi in collina. Lasciamo anche perdere Forza Italia, con Mino Giachino che si è potuto prendere comodamente il suo spazio nel bel mezzo dei sindacati, per concentrarci su una nostra vecchia conoscenza. Ad alcuni non è sfuggita, a pochi passi dall’ANPI, la camminata paciosa e tranquilla di Agostino Ghiglia, noto picchiatore della destra torinese che qualche anno fa ha passato nove mesi in carcere per aver quasi ammazzato di botte uno studente 17enne del liceo Volta. Ormai ripulito e candidato con Fratelli d’Italia è entrato anche lui nella grande famiglia del primo maggio sindacale torinese. Oggi leggiamo sulle pagine di Repubblica un giornalista, Paolo Griseri – che negli scorsi mesi si è distinto per la più meschina campagna contro le ragioni del movimento notav che la storia ricordi – si è indignato di questa presenza, sconvolto dalla mancanza di anticorpi antifascisti tra i rappresentanti dei lavoratori. Ma cosa si aspettava? A noi sembra invece che la presenza di Ghiglia contribuisca a mettere fuoco la linea di demarcazione che separa la città e che si è palesata con tutta la sua evidenza in questo primo maggio. Da una parte post-comunisti e post-fascisti, confindustria, i salotti buoni e un carrozzone consociativo in affanno senza arte né parte che prova a nascondere trent’anni di disastri dietro la bandiera sitav. Dall’altra una presenza variegata di lavoratori e lavoratrici che parlano il linguaggio del riscatto e di un futuro diverso. E dispiace aver visto, anche quest’anno, pezzi di sindacalismo di base che al mattino provano ritagliarsi, giustamente, un proprio percorso autonomo arrivare poi in piazza e ostinarsi a cercare “gli operai” tra gli apparati sindacali che sfilano davanti alla polizia e non tra i lavoratori che hanno scelto di fare altro.
C’è chi ora tira il freno, parla di feste alternative e propone di lasciare ai sindacati confederali la possibilità di continuare a spolpare i resti del primo maggio in tutta tranquillità. Niente di più sbagliato. Il primo maggio non è un rituale stanco. Deve tornare ad essere la festa dei lavoratori e delle lavoratrici, non certo il parco protetto di chi ha svenduto i loro diritti sull’altare della competitività e dello sviluppo. D’altronde non c’è stato solo lo spezzone notav. La contestazione dei rider ai sindacati confederali, riusciti a infilarsi in piazza durante il discorso della UIL nonostante le intimidazioni della polizia, parlano di una voglia di contare e farsi sentire per liberare il primo maggio da chi l’ha preso in ostaggio per farne la fiera dell’ipocrisia.
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