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La manovra Meloni e la guerra ai poveri (nel solco di Draghi)

Mercoledi 23 novembre il governo Meloni ha rilasciato il testo di legge della manovra finanziaria del 2023. Tale manovra dovrà essere approvata dalle due camere entro il 31 dicembre, una scadenza prorogata e straordinaria legata alle inusuali elezioni autunnali.

In merito al contenuto l’interpretazione è abbastanza semplice e non serba novità: non c’è nessun provvedimento volto a migliorare le condizioni materiali di vita delle decine di milioni di persone che sono schiacciate tra impoverimento e povertà nella perenne crisi del sistema-paese Italia.

Tuttavia, vale ugualmente la pena analizzare i punti salienti, sottolineare i limiti strutturali delle manovre di bilancio e soffermarsi sull’ineluttabile continuità delle politiche macro-economiche, votate alla ‘responsabilità’ a prescindere dal colore governativo che le promuova.

Partiamo da questo ultimo elemento che rende più semplice comprendere la continuità con gli ultimi 15 anni.

Il neo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, non a caso il più ‘draghiano’ della coalizione di destra, ha definito il provvedimento con l’aggettivo ‘responsabile’, mentre la Meloni per ovvi motivi ha osato etichettarla come ‘coraggiosa’. Aggettivi che nell’ambito economico-finanziario mainstream possono essere considerati contrari e antitetici.

In realtà è una manovra oggettivamente ‘responsabile’ nel quadro di tenuta dei conti pubblici, dove l’unico tratto ‘coraggioso’ sta nell’attacco frontale al reddito di cittadinanza. Una destra ‘coraggiosa’ perché sfida apertamente una fetta di popolazione che non ha niente da dare al sistema se non la propria forza lavoro nel regime semi-schiavile che vige nei servizi privati italiani e nella manifattura a basso valore aggiunto.

Eppure oltre che coraggiosi sono stati anche coerenti con la campagna elettorale ed interpreti del sentimento anti-reddito animato praticamente da tutta la stampa italiana. Livore anti-poveri dei giornali che ha superato ‘a destra’ addirittura Confindustria, che tutto sommato è consapevole che il manifatturiero italiano questi 660 mila disoccupati non sa come impiegarli e anzi sono costantemente impegnati a capire come sbolognare parte della forza-lavoro già integrata.

Lasciando da parte il coraggio dell’attacco al reddito sui cui dettagli torneremo più avanti, è più importante sottolineare la vera anima della manovra, la sua responsabilità.

A inizio settimana quando sono iniziati a circolare i contenuti più o meno definitivi, Giorgetti ha calato il tris: manovra prudente, responsabile e sostenibile. Chiaramente il messaggio non era per l’elettorato italiano ma per Bankitalia, agenzie di rating, Commissione Europea e BCE.

Manovra responsabile perché, se escludiamo il tema RDC e le mancette ideologiche ad un certo elettorato di destra, non cambia ed incide praticamente su nessun piano di politica economica e il deficit sia annuale sia prospettico è perfettamente in linea con le maglie concordate nella UE durante la pandemia.

Passiamo quindi alle cifre e ai limiti ‘strutturali’ delle leggi di bilancio italiane.

La manovra consta di 35 miliardi di euro che, come abbiamo sottolineato in altri commenti sul tema, è una miseria.  Questa piccola cifra rientra tra quei limiti ‘strutturali’ del bilancio italiano a cui facevamo riferimento in apertura d’articolo. Infatti, una finanziaria con queste esigue somme non può che essere definita come amministrazione delle briciole del calendario liturgico economico-finanziario.  

A tal proposito si tenga presente che 35 miliardi rappresentano appena l’1.7% del PIL nazionale del 2021 (circa 2100 miliardi). Lo stato italiano oggi non è lontano dall’incarnare quel concetto di ‘stato minimo’ teorizzato dagli economisti neoliberisti negli anni ’80, esso infatti non ha le risorse necessarie non per ‘governare’ il mercato ma nemmeno per orientarlo e fornire input direzionali di investimento (si pensi alla transizione ecologica).

L’elevata pressione fiscale non permette di tassare ulteriormente il lavoro dipendente, mentre patrimoni e i profitti, quando non sono accuratamente nascosti, non possono essere toccati pena l’accusa a reti unificate di bolscevismo.

Scuola, sanità e welfare in generale sono allo stremo e già ampiamente saccheggiati nell’ultimo ventennio, mentre la spesa militare, che ammonta ad oltre 25 miliardi, deve essere ulteriormente finanziata visto che siamo in guerra.  

Questa rozza quanto veritiera descrizione mostra come i margini di spesa per nuovi progetti di politica economica siano pressoché inesistenti. Una rigidità che dobbiamo tenere a mente qualunque sia il colore di chi governa.

Ovviamente c’è sempre il debito. Infatti, 22 miliardi dei 35 della manovra sono in deficit e basta osservare il grafico sottostante per comprendere come la socializzazione dei costi della grande crisi finanziaria del 2007-08 sia avvenuta attraverso la contrazione di debito collettivo mentre un 10% di ricchi e arricchiti si gode i profitti, ma più spesso rendita, nel bel paese.

Il rapporto debito pubblico/PIL, che si era stabilizzato intorno al 130% dopo l’attacco speculativo all’euro del 2012, ha avuto un forte incremento con lo scoppio della pandemia e le conseguenti misure giungendo alla cifra monstre del 155%.

Quest’anno grazie ad una crescita di rimbalzo del PIL (+ 3.7%) si attesterà intorno al 145%.

Questi due dati ‘positivi’ hanno fatto sì che anche quest’anno una parte della manovra possa essere effettuata in deficit, ossia si contrae altro debito da ripagare nel futuro per finanziare iniziative economiche correnti.

Il rapporto deficit/PIL del 2021 fu del 7.2%, quest’anno sarà del 5.6% (i 22 miliardi di cui sopra) e in seguito dovrà diminuire fino a tornare al 3% massimo prescritto dagli accordi di Maastricht.

A tal proposito bisogna ricordare che le istituzioni finanziarie internazionali prevedono un 2023 per l’Italia a crescita 0, o meglio +0,3%, un dato che restringerebbe ulteriormente gli spazi di manovra per la seconda finanziaria del governo Meloni.

Arriviamo dunque a ciò che viene finanziato o de-finanziato dall’attuale legge di bilancio.

Circa il 66% dei 35 miliardi, ossia 23-24 miliardi, serviranno per calmierare l’uragano bollette che si sta per abbattere sul paese. Meloni e Giorgetti come da copione sbandierano l’attenzione e la cura verso il neutrale e insensato binomio “famiglie e imprese” le cui spese saranno alleviate.

Eppure stiamo prendendo a prestito questo denaro per regalare extra-profitti ad imprese partecipate di stato come ENI o ENEL che insieme al loro oligopolio internazionale fanno affari e speculazione d’oro sulla borsa di Amsterdam. Non potendo qui entrare nel merito segnaliamo questo testo di Andrea Fumagalli sulle conseguenze della finanziarizzazione dell’energia http://effimera.org/la-dittatura-della-finanza-e-il-mercato-del-gas-di-andrea-fumagalli/.

Quindi 35 – 23/24, cosa rimane? Il 33% della miseria per gli altri problemi del paese.

Il taglio del reddito di cittadinanza per i famosi 660 mila abili a lavoro, su 3 milioni di percettori, consentirà alle casse dello stato un risparmio di meno di 1.5 miliardi di euro, che andranno a finanziare l’innalzamento della flat tax al 15% per le partite iva da 65 a 85 mila euro.

La sanità riceverà due miliardi, e siamo addirittura costretti a sentire giornalisti e ‘intellettuali d’oggi’ che plaudono bofonchiando come non sia una cosa di destra dare due miliardi alla sanità.

‘Per fortuna’ arrivano i presidenti di regione a ricordare che i costi della sanità in Italia con l’aumento dei costi delle materie prime più rincari energetici, più adeguamento salariale, più spesa prevista per fornire prestazioni essenziali e urgenti a coloro che hanno rimandato tutto a causa della pandemia ammontano ad almeno 3,4 miliardi. Ergo la sanità è stata ulteriormente de-finanziata.

Si parla di un miliardo destinato a scuola e servizio di trasporto pubblico, al cui interno ci sono anche i finanziamenti alle scuole private e paritarie, un marchio di fabbrica di Gelminiana memoria che il suo braccio destro dell’epoca e attuale ministro dell’istruzione Valditara ha voluto assolutamente rieditare.

A tal proposito vale la pena ricordare che quest’estate è stata varata una riforma del reclutamento dell’università che avrebbe dovuto migliorare, senza fondi sia chiaro, la contrattualistica universitaria riducendo il precariato cronico. La ministra Bernini ha già annunciato che si va in deroga come se la riforma non fosse stata approvata. Per l’università non c’è un centesimo aggiungiamo noi.

Infine, la dimensione previdenziale viene gestita attraverso una ancora caotica “Quota 103”, che in termini tecnici non è che la riedizione con meno soldi di quota 100, fatta dal Conte I e poco usata perché punitiva in termini reddituali, e di quota 102, fatta da Draghi e sui cui esiti chissà.

D’altronde la promessa di tenerci incatenati al posto di lavoro fino a 67 anni è uno degli assi portanti della stabilità dei conti pubblici davanti all’Europa.

La prima manovra ‘Meloni’ è ‘responsabile’ verso la tenuta degli assetti di potere attuali e ‘coraggiosa’ nell’attaccare il reddito di cittadinanza, che in questi anni drammatici ha fornito un sollievo a chi è costretto in condizioni di insopportabile povertà. Una manovra esigua che nutre gli extraprofitti invece che tassarli, stretta nelle maglie della persecuzione di uno stato minimo utile solo a ristorare i profitti e socializzare i costi.

Una manovra ingiusta e in favore degli abbienti, tutto possiamo essere meno che stupiti.

Lo sciopero generale dei sindacati di base del 2/3 dicembre e la manifestazione a Roma potranno essere un primo momento, insieme agli accenni di mobilitazione sui territori in difesa del Reddito di Cittadinanza e contro guerra e carovita per lavorare alla ricomposizione di un sociale sempre più in sofferenza e sacrificato per mantenere intatti ed aumentare i profitti della borghesia parassitaria italiana.

Dimenticavamo che hanno riaperto, e rifinanziato, la società per il ponte sullo stretto. Un’altra farsesca e mitologica grande opera come la Torino-Lione. Dalla valle allo stretto vi aspettiamo al varco!

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